Il prezzo della disuguaglianza

Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro

Joseph E. Stiglitz
tr. it. di Maria Lorenza Chiesara, Einaudi, Torino 2013 pp. XXXVI + 474, € 19,55
Scheda di: 
Fascicolo: dicembre 2013
L’economista americano Joseph E. Stiglitz, premio Nobel nel 2001, con Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro propone una documentata analisi critica della crescente e impressionante disuguaglianza di reddito e ricchezza fra classi sociali negli Stati Uniti, giungendo a due conclusioni: da un lato la disuguaglianza, declinata nei suoi profili economici, ha costituito un fattore di limitazione alla crescita e quindi va annoverata tra le cause della crisi economica; dall’altro Stiglitz constata e critica alcune scelte politiche che potrebbero aver deliberatamente contribuito a costruire quella che egli chiama «società dell’1%». La sua analisi conduce quindi a considerare la disuguaglianza sia come seme, sia come frutto della crisi.

Il discrimine è individuato negli anni ’80, l’epoca delle “rivoluzioni neoliberali” di Reagan negli USA e Thatcher in Gran Bretagna, e dell’abbandono delle politiche economiche keynesiane, che prevedono un intervento dello Stato nell’economia a sostegno della domanda e del reddito. La disuguaglianza, infatti, diminuisce tra il 1950 e il 1970, ma la tendenza si inverte proprio a partire dagli anni ’80: «circa trent’anni fa, il primo 1% dei percipienti reddito riceveva soltanto il 12% del reddito nazionale» (p. 6 s.), mentre nel 2007, alle soglie della più grande crisi economica dal dopoguerra, all’1% più ricco della società americana andavano quasi il 20% del reddito e circa un terzo della ricchezza nazionale! La crescita del divario è impressionante e – come fa spesso notare l’A. – su questa dinamica hanno avuto scarsa influenza anche i Governi democratici, che pure sono stati al potere lungo parte di questo periodo.
Nemmeno la crisi inverte questa tendenza, nonostante la sua origine finanziaria e il crollo delle Borse condurrebbero a supporre che abbia colpito soprattutto i più ricchi. In realtà, il patrimonio delle famiglie della classe media e delle fasce più povere era costituito principalmente dalla casa e il crollo del mercato immobiliare lo ha spazzato via. Anche i benefici del primo accenno di ripresa si concentrano sui ricchi, per quanto riguarda sia i guadagni in conto capitale (capital gains), sia le retribuzioni: nel 2010, dopo un leggero calo nel 2008, «il rapporto tra il compenso annuale di un CEO [amministratore delegato, N.d.R.] e quello di un lavoratore tipico era tornato al livello pre-crisi di 243 a uno» (p. 5 s.). Una disuguaglianza tutt’altro che “naturale” o addirittura “salutare” – come pretendono coloro che sostengono che essa avrebbe ricadute favorevoli –, ma vorace e aggressiva a ritmi paradossali, anche perché mentre i ricchi sono diventati più ricchi, i redditi dei componenti della classe media sono invece rimasti stagnanti. I dati squarciano molti veli sulle letture romantiche che vedono nell’America il Paese delle opportunità per tutti: «in seguito alla crisi, la tipica famiglia di neri aveva un patrimonio netto di soli 5.677 dollari, un ventesimo di quello della famiglia tipica bianca» (p. 114 s.).
La critica di Stiglitz alla inefficacia e inefficienza della disuguaglianza parte proprio dai dati economici; negli USA la crescita economica è correlata negativamente con l’aumento della disuguaglianza: infatti negli ultimi trent’anni (1981-2011), lungo i quali la disuguaglianza è cresciuta, «la crescita non è stata così intensa come nei tre decenni precedenti, registrando una crescita media annuale del 2,8% rispetto al 3,6%» (p. 41, nota 20). Il parallelo con la crisi del 1929 è immediato, dato che gli stessi fenomeni di concentrazione di ricchezza e reddito avevano preceduto la Grande depressione. La concentrazione del reddito e della ricchezza in poche mani abbatte la domanda interna, perché la propensione al consumo dell’1% più ricco è molto inferiore a quella dei percettori dei redditi più bassi; una domanda più bassa significa disoccupazione, «a meno che non accada qualcosa come un aumento degli investimenti o delle esportazioni» (p. 145). In un passaggio estremamente interessante, Stiglitz stima che la riduzione dal 20% al 15% della quota di reddito nelle mani dell’1% più ricco della popolazione farebbe crescere la domanda aggregata di un punto percentuale e «con la disoccupazione intorno all’8,3% all’inizio del 2012, uno spostamento di reddito di questo genere avrebbe potuto far scendere il tasso di disoccupazione quasi al 6,3%» (p. 146).
Stiglitz analizza anche le cause politiche di questa disuguaglianza distruttiva e del suo aumento: essa non è tanto o solo il frutto “naturale” delle leggi del mercato, ma è stata perseguita con precise scelte politiche. Anzitutto la politica ha rinunciato a plasmare l’economia, aprendo invece gli spazi alla deregolamentazione più sfrenata. Alcuni esempi sono i tagli alle imposte avviate dalla presidenza Bush, con un pesante effetto di incremento della disuguaglianza, le politiche di riduzione degli investimenti pubblici, la deregolamentazione dei mercati finanziari, decisione particolarmente delicata e significativa come causa dell’attuale crisi. Dopo la Grande depressione del 1929 il Governo intervenne proprio a regolamentare il settore finanziario, riconosciuto – già allora! – come fattore decisivo nelle crisi. Questa regolamentazione garantì «quarant’anni di stabilità finanziaria e rapida crescita, durante i quali le banche si mantennero focalizzate sul credito prestando il denaro necessario alla veloce espansione delle nostre imprese» (p. 277), finché, nel 1999, fu smantellata in obbedienza alla teoria della efficienza dei mercati deregolamentati; «i banchieri misero velocemente a frutto i nuovi progressi compiuti dalla tecnologia, dalla finanza e dall’economia. Tali innovazioni aprivano nuove strade, che i regolamentatori non comprendevano del tutto, per aggirare sempre di più le regolamentazioni rimaste, per spingere il prestito predatorio e per ingannare utenti di carte di credito incauti» (p. 152): ecco i prodromi e le precondizioni della crisi attuale.
L’analisi cerca anche di capire se e come l’1% più ricco della società abbia “plasmato” anche la politica, determinando quindi un circolo vizioso nella dialettica disuguaglianza-democrazia. Il perno del ragionamento ruota attorno alla enorme crescita della capacità di influenza del potere economico sulle scelte politiche. Ad esempio la possibilità delle grandi imprese di spendere somme molto elevate per sostenere le campagne elettorali «ha rappresentato una pietra miliare nel processo di esautorazione dei cittadini americani» (p. 214), influenzando pesantemente l’orientamento politico e le cause sostenute da partiti e candidati. Questo potere opera direttamente nella selezione di partiti e candidati, ma anche indirettamente attraverso quella che Stiglitz definisce l’esautorazione della classe media e la disillusione del 99%. Sul nesso tra disuguaglianza e democrazia è importante aprire una riflessione anche nel nostro Paese, in particolare in occasione della riforma della legge elettorale e del finanziamento dei partiti.

Il volume risulta quindi fecondo di stimoli non solo per la società americana, soprattutto per la riscoperta dell’attualità del pensiero di John M. Keynes (1883-1946), l’economista britannico che teorizzò le politiche economiche di intervento dello Stato che costituirono la via di uscita alla crisi del 1929. Questo pensiero appare rivivificato dalla capacità di Stiglitz di mostrare il filo conduttore che lega il valore morale della disuguaglianza alla inefficienza economica della sottostante e clamorosamente iniqua distribuzione della ricchezza. L’A. non si limita all’analisi, ma suggerisce riforme (economiche, sociali e politiche) nei cui dettagli qui non possiamo entrare. La loro lettura mostra quanto possa trattarsi di una agenda programmatica anche per l’Italia, che negli ultimi decenni ha registrato livelli di disuguaglianza analoghi a quelli degli USA, da utilizzare, ad esempio, per confrontare e valutare le proposte in competizione sulla nostra scena politica. Con un elemento incoraggiante: la visione di Stiglitz è venata di ottimismo per il futuro, basato sulla possibilità di «una società in cui il divario fra chi ha e chi non ha è ridotto, nella quale esiste il senso di un destino comune, un impegno condiviso a estendere opportunità ed equità» (p. 454).
In conclusione segnaliamo a chi si fosse appassionato al tema il volume di un altro dei maggiori esperti mondiali di disuguaglianza, Branko Milanovic, economista serbo in forza alla Banca mondiale (Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze, il Mulino, Bologna 2012). Il libro riconosce che la disuguaglianza è antica quanto la società, «perché differenze di potere e di ricchezza hanno sempre caratterizzato la vita dell’uomo all’interno di una comunità» (p. 1) e ne racconta attraverso godibilissimi quadretti narrativi l’evoluzione nei secoli, operando anche la distinzione di tre tipi di disuguaglianze: quella tra individui di una stessa comunità (o Paese), quella tra nazioni e quella diventata più rilevante di recente: la disuguaglianza globale tra tutti i cittadini del mondo. Con un approccio narrativo, che comunque si fonda su anni di studio e di raccolta di dati, e con lo sguardo rivolto non esclusivamente alla società americana, la conclusione è molto simile a quella di Stiglitz: la disuguaglianza non è fenomeno ineludibile, né l’esito spontaneo di un’economia di mercato, ma è determinata e spesso amplificata da alcune scelte politiche.
La lettura dei due volumi permette di acquisire consapevolezza dei dati economici, spingendo perché il tema delle politiche redistributive e i nessi tra disuguaglianza e crescita economica acquisiscano maggiore peso nel dibattito in corso sulla crisi economica italiana, e soprattutto nella determinazione del sentiero per uscirne.
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