Il nazionalismo strisciante nel caso marò

Questa volta la rubrica “Multitalia” non si occupa di immigrazione e società multietnica, ma di una questione almeno apparentemente diversa: la vicenda  dei due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone,  accusati di omicidio in India, per aver ucciso due pescatori al largo delle coste del Kerala il 15 febbraio 2012, e per i quali il tribunale arbitrale internazionale dell’Aja ha stabilito che dovranno essere giudicati in Italia.

Mi hanno colpito le reazioni politiche e mediatiche alla vicenda: un coro di soddisfazione, persino di esultanza, per “la fine della sofferenza” dei nostri militari. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha commentato: «È un risultato che accogliamo con soddisfazione, che mette fine a una vicenda che andava avanti da anni, particolarmente gravosa anche per i suoi aspetti umani. Per questo rivolgo un affettuoso pensiero ai nostri due marò e alle loro famiglie per i difficili momenti che hanno vissuto». Più enfatico il suo collega agli Esteri, Luigi Di Maio, espressione eloquente di sentimenti nazional-popolari: «Oggi si mette definitivamente un punto alla lunga agonia che hanno dovuto attraversare i nostri due militari».

In realtà la Corte dell’Aja ha stabilito anche altro: «L'Italia ha violato la libertà di navigazione e dovrà pertanto compensare l’India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony».
Dalle nostre autorità, almeno nelle dichiarazioni ufficiali trasmesse attraverso i mass media, non è venuta una parola di scuse, di cordoglio e di solidarietà per le sofferenze subite dalle vittime e dalle loro famiglie: quelle donne rimaste vedove e quei figli rimasti orfani. Oltre ai traumi subiti dagli altri componenti dell’equipaggio e riconosciuti dal tribunale arbitrale.

La vicenda è significativa e preoccupante perché ci parla di un nazionalismo strisciante, irriflesso, banalizzato, trovando in questo caso una controparte enfatica da parte indiana. Anche senza assumere i toni bellicosi di altri tempi, si dà per scontato che le autorità nazionali debbano tutelare i propri militari impegnati in missioni all’estero, nell’occasione peraltro scortando una nave di proprietà privata. Se in missioni di questo tipo usano le armi malamente e provocano vittime innocenti, si tratta di danni collaterali che eventualmente risarciremo, ma che non meritano la nostra partecipazione e la nostra commozione. L’uso del termine “agonia” per i militari italiani, ma non per i pescatori indiani, è emblematico di questo paradossale doppiopesismo della solidarietà.
6 luglio 2020
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