Inserita tra le priorità del programma dell’attuale Governo, la revisione della disciplina costituzionale sulla natura, composizione e funzione del Senato e sull’ordinamento territoriale del nostro Paese (Titolo V della Parte II della Costituzione) è arrivata ieri alla conclusione del suo iter parlamentare, in attesa del probabile referendum popolare.
Che cosa prevede la riforma e perché è stata proposta? Come cambierà l’ordinamento del nostro Paese? Quali sono i punti di forza e quali le debolezze? A partire dal numero di aprile la nostra Rivista offre ai lettori un percorso di approfondimento su un tema così rilevante, percorso che proseguirà fino a ottobre. Ad aprire il dossier
l'articolo di Giuseppe Riggio, caporedattore di
Aggiornamenti Sociali.
Il pdf dell'articolo è scaricabile dagli abbonati. I non abbonati possono
acquistare il numero di aprile, in formato pdf o cartaceo. Di seguito pubblichiamo una scheda, tratta dall'articolo, che approfondisce come l'Assemblea Costituente arrivò a introdurre il bicameralismo paritario, abolito dalla riforma approvata ieri.
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La scelta dell’Assemblea Costituente a favore del bicameralismo paritario non fu né scontata né pacifica. I lavori dell’Assemblea (giugno 1946-gennaio 1948) furono condizionati dalla tragica e recente esperienza della Seconda guerra mondiale, dalla diversità di visioni del bene comune e dell’uomo presenti al suo interno (vi erano tre “anime” di maggior peso: cattolica, comunista-socialista e liberale), dall’evoluzione del clima politico e culturale italiano in quegli anni a seguito dell’inizio della Guerra fredda e la conseguente caduta del Governo di unità antifascista.
Furono soprattutto i lavori sulla Parte II della Costituzione a risentire del venir meno di una collaborazione più aperta tra i partiti: le scelte sulla forma di governo furono frutto di un compromesso, su cui pesò la volontà di limitare le possibilità di affermazione di una singola forza politica. Troppo forti erano i timori nutriti dai cattolici e dalla sinistra italiana all’idea che potesse prevalere lo schieramento opposto. Le originarie posizioni dei partiti furono in parte modificate per poter giungere a un accordo, che trovò in effetti un largo consenso dato che il testo della Costituzione fu approvato da quasi il 90% dei Costituenti. In questo quadro di riferimento va collocato l’approdo al bicameralismo paritario. Se il Partito comunista era fautore di un sistema monocamerale perché assicurava una rappresentanza popolare corretta, i repubblicani, il Partito d’azione e alcuni liberali propendevano per un regime bicamerale, più adatto al riconoscimento e alla valorizzazione delle autonomie territoriali. La Democrazia cristiana, a sua volta, pensava un Senato rappresentativo degli interessi organizzati. Nella propensione al bicameralismo vi era anche la volontà di evitare che esperienze totalitarie potessero nuovamente verificarsi nel nostro Paese.
Frutto di un compromesso condizionato dai reciproci veti, il bicameralismo paritario può essere considerato un “tradimento” rispetto alle istanze avanzate originariamente dai vari Costituenti, in particolare riguardo l’auspicato legame tra lo Stato e le autonomie territoriali, come constatava alcuni anni dopo Costantino Mortati, relatore all’Assemblea Costituente della parte di progetto riguardante il Parlamento: «Una Camera che fosse rappresentativa dei nuclei regionali offrirebbe il grande vantaggio di fornire quello strumento di coordinamento fra essi e lo Stato che attualmente fa difetto, e che invece si palesa essenziale per conciliare le esigenze autonomistiche con quelle unitarie. Non sono da nascondere le difficoltà pratiche offerte da questo tipo di rappresentanza, ma sembra che sia in questa direzione a cui bisogna avvicinarsi per dare una ragion d’essere ad una seconda camera, che non sia, come avviene per l’attuale Senato, un inutile doppione della prima» (Mortati C.,
«La Costituzione e la crisi», in
Gli Stati [1973] 10).