Il volontariato, tradizionalmente legato al mondo delle associazioni, sta vivendo una stagione in cui si affacciano come nuovi protagonisti i cosiddetti “volontari episodici”. Quali sono le motivazioni alla base di questo fenomeno? Come può essere letto rispetto alle forme di volontariato tradizionale? Sono due forme in netta contrapposizione o in qualche modo possono arricchirsi a vicenda? Maurizio Ambrosini, sociologo dell'Università degli Studi di Milano, dedica a questi temi un articolo pubblicato sul numero di giugno-luglio di Aggiornamenti Sociali
. Di seguito la parte introduttiva. Se sei abbonato/a o se vuoi acquistare l'articolo puoi continuare a leggere cliccando qui.
Nel composito panorama dell’impegno solidaristico da qualche tempo si è affacciato un nuovo fenomeno: quello di un volontariato episodico, senza etichette, svincolato da affiliazioni e appartenenze organizzative. Secondo l’Istat, 6,63 milioni di persone nel nostro Paese (circa un cittadino su otto) svolgono attività gratuite al servizio della società. Di queste, 4,14 milioni prestano un servizio mediante un gruppo o un’organizzazione, mentre 3 milioni si impegnano in maniera non organizzata; vi sono poi 538mila persone che hanno svolto attività di servizio gratuito sia in modo organizzato sia individualmente.
L’Istat stima dunque che il tasso di quello che definisce “volontariato individuale” sia pari al 5,8%, mentre l’incidenza sul totale dei volontari è superiore a un terzo, precisamente il 37,6%. Stiamo dunque parlando di un fenomeno che riguarda in vario modo una componente cospicua e composita del mondo del volontariato, generalmente poco visibile e trascurata.
Il volontariato nell’orizzonte della soggettività
Un numero sempre maggiore di cittadini è disposto a impegnarsi per una buona causa, ma allergico a sottoscrivere una tessera e ad aderire a un’associazione: si potrebbero chiamare “altruisti senza divisa”, mutuando la definizione che ne ha dato alcuni anni fa Caltabiano (Altruisti senza divisa. Storie di italiani impegnati nel volontariato informale, Carocci 2006). Si manifesta quindi una crescente divaricazione tra l’impegno volontario espresso dai singoli e quello incanalato e organizzato con la mediazione di soggetti collettivi di tipo associativo. Se finora parlare o anche studiare il volontariato ha significato quasi automaticamente fare riferimento alle associazioni, ora non è più così. Forme di volontariato brevi, occasionali, legate a manifestazioni o esigenze specifiche, stanno incontrando un notevole successo, mentre molte associazioni incontrano crescenti difficoltà a reperire volontari per attività continuative e strutturate.
Si spiega così la distanza tra rilevazioni come quella dell’Istat sopra citata, in cui milioni di cittadini dichiarano di impegnarsi in forme di volontariato, e quelle in cui, interpellando le associazioni, si coglie al contrario un declino della partecipazione.
Si può interpretare questo fenomeno nella prospettiva della crescente soggettività dell’impegno altruistico. Non è vero infatti che l’affermazione dell’individuo sia sempre nemica della sollecitudine per gli altri. Il volontariato moderno è anzi una tipica espressione di scelte individuali: la personale e libera decisione di dedicare tempo, risorse ed energie a una causa giudicata meritoria (Ambrosini M. [a cura di], Scelte solidali. L’impegno per gli altri in tempi di soggettivismo, il Mulino 2005). Ricerche condotte negli Stati Uniti, un Paese permeato dai valori individualistici, mostrano che i processi di modernizzazione e la crescita della soggettività possono favorire l’impegno altruistico (cfr Wuthnow R., Acts of compassion. Caring for others and helping ourselves, Princeton University Press 1991). Le motivazioni possono essere varie: spingono al coinvolgimento la volontà di dedicare tempo ed energie ad attività percepite come appaganti, dotate di senso, meritevoli agli occhi degli altri; la consapevolezza delle fratture sociali, dei bisogni inascoltati, delle cause degne di essere difese che interpellano gli individui e li sollecitano a intervenire; altre volte, il bisogno di socialità, le catene amicali, la curiosità intellettuale, la percezione che la partecipazione a un’esperienza di servizio sia umanamente ricca.
Nel caso dei giovani, emergono come vettori di partecipazione motivazioni come l’esplorazione del mondo, la scoperta di sé e delle proprie capacità, il desiderio di misurarsi con ruoli e responsabilità adulte, l’opportunità di intrecciare nuove amicizie, a volte il desiderio di saggiare la propria predisposizione verso determinati ambiti professionali, oppure di acquisire competenze coerenti con studi e aspirazioni. Come il lavoro, il volontariato prevede dei ruoli, dei compiti, degli orari, degli obiettivi da raggiungere, delle responsabilità di cui rispondere, delle relazioni di collaborazione da intrattenere; in questo senso, esso avvicina agli stili di comportamento del mondo adulto, richiedendo serietà e impegno. A differenza del lavoro, l’impegno volontario non comporta però un contratto vincolante: può essere esercitato con maggiore libertà, modulato in funzione di altri impegni e interessi, articolato in relazione a inclinazioni e disponibilità. Inoltre, si svolge in un clima solitamente amicale, è intriso di rapporti personali significativi, è sottoposto a codici non scritti che prescrivono accoglienza e disponibilità nei confronti dei nuovi arrivati e dei compagni di impegno. Per un giovane ancora in formazione, può essere considerato come un luogo intermedio e complementare tra la compagnia degli amici e la società adulta con le sue regole e i suoi rituali (Ambrosini M. [a cura di],
Per gli altri e per sé. Motivazioni e percorsi del volontariato giovanile, Franco Angeli 2004; Famà A. - Purpura N.,
«Giovani e volontariato. Una via per formare cittadini responsabili», in
Aggiornamenti Sociali, 12/2017, pp. 829-839).
Nel caso invece delle persone che arrivano alla pensione, l’esperienza del volontariato diventa un’occasione per continuare a svolgere un ruolo attivo nella sfera pubblica, per riempire un tempo che diventa improvvisamente troppo lungo e troppo povero di senso, per continuare a sperimentare una dimensione di socialità non più rinvenibile nell’ambito del lavoro oramai lasciato. Per chi lavora, può invece rappresentare uno spazio di espressione di sé e della propria personalità che non si trova nel lavoro, e magari per esercitare attitudini, propensioni e competenze che il lavoro spinge a sacrificare.