È appena rientrata la polemica sulle ONG impegnate nei salvataggi in mare, con una sostanziale smentita delle improvvide accuse del procuratore Zuccaro, e un nuovo fronte si è aperto: quello della regolamentazione del pluralismo culturale e religioso nelle sue manifestazioni pubbliche.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un immigrato di religione sikh sulla facoltà di portare in pubblico il pugnale rituale, ma è andata oltre il merito della questione, scegliendo di impartire una lezione sul rispetto dei “valori” della società di accoglienza.
La sentenza infatti non si è limitata ad affermare che circolare con un pugnale di 18 centimetri può essere pericoloso e infrange le norme sull’ordine pubblico. Ha voluto farne una questione di valori culturali da affermare, contro le rivendicazioni di minoranze che si rifanno a valori diversi e vorrebbero portarli con sé nella nuova società. Un allargamento inopportuno, che apre la porta a imposizioni in materia di abbigliamento o di pratiche religiose.
Come spesso accade nel dibattito su questi argomenti, le reazioni si sono schierate come le tifoserie su spalti contrapposti: la maggioranza a sostegno della sentenza, una minoranza invece su posizioni critiche, in difesa del relativismo culturale. Un’ennesima partita tra guelfi e ghibellini.
Eppure in altre società, segnatamente quelle anglosassoni, le istituzioni hanno trovato soluzioni pragmatiche di compromesso in grado di disinnescare il conflitto: pugnali saldati al fodero e non estraibili, impugnature elaborate ma con lame di due centimetri, oppure smussate.
In materia di immigrazione e dintorni, i conflitti assumono troppo spesso valenze simboliche e ideologiche che li rendono insuperabili. Moderazione, pragmatismo, ricerca di compromessi equilibrati sembrano merce rara, ma tanto più preziosa in questi tempi travagliati.