La seimillesima astronave partita
dalla Terra svolge una missione
esplorativa sul pianeta Nuova
Scoperta; il suo equipaggio, composto
da umani e da androidi, ha
l’incarico di custodire misteriosi
“oggetti”, forse viventi, recuperati
sulla superficie del pianeta. A seguito
di inattese reazioni da parte
dei dipendenti addetti agli “oggetti”,
una commissione aziendale
indaga sull’accaduto, raccogliendo
testimonianze sconvolgenti. È
questo il punto di partenza del romanzo
della giovane poetessa danese
Olga Ravn, alla sua seconda
prova narrativa. Se l’intreccio può
apparire scontato ai frequentatori
della fantascienza, va detto invece
da subito che si tratta di un
romanzo estremamente originale,
che riprende alcuni stereotipi della
narrativa di genere (il ritrovamento
di manufatti di origine ignota, la
convivenza tra esseri umani e robot
umanoidi) per dare vita a uno
scenario nel quale, tra la satira e
la tragedia, esplodono le contraddizioni
della condizione lavorativa
contemporanea.
La forma della narrazione, organizzata
come una raccolta di testimonianze
personali dei dipendenti,
umani e non, indirizzati alla commissione
d’inchiesta, fa risaltare
uno stile di scrittura peculiare, che mescola lirismo esistenziale e satira
del gergo aziendale, dando vita a
una polifonia frammentata e disorientante,
anch’essa espressione
dell’impossibilità, per i lavoratori,
di trovare una voce in grado di
restituire un racconto collettivo.
Ciascuno si muove da solo negli
spazi asettici, bianchi e puliti della
nave spaziale, ciascuno intento
nello svolgere un compito delimitato,
del quale non comprende
la connessione con il lavoro degli
altri e con la missione dell’impresa.
Divorati da un’immensa nostalgia
della Terra, i dipendenti coltivano
ricordi struggenti del contatto con
la natura e con i propri figli; di
fatto, il grande assente in questa
storia è proprio il corpo, divenuto
come qualcosa di inessenziale
all’esperienza del lavoro e sostituibile
con le strutture sintetiche degli
androidi.
I dipendenti di Olga Ravn sono
i lavoratori di un’economia basata
su rapporti di lavoro spersonalizzati,
nella quale ognuno percepisce
se stesso come pezzo intercambiabile
di un sistema del qual non comprende il funzionamento; sono
l’uomo e la donna che sperimentano
il posto di lavoro come un luogo
d’esilio dalla vita vera, lasciata
altrove; sono i corpi consapevoli
del fatto che potrebbero essere sostituiti
dalle macchine.
«Non so se sono ancora umana.
Sono umana? C’è scritto nei vostri
documenti che cosa sono?» (p. 20),
si chiede la redattrice della “Testimonianza
101”: infatti, dal racconto
non riusciamo a scoprirlo. Possiamo
però chiederci che cosa renda
umano un lavoro, ed è questa la
grande domanda che resta alla fine
del romanzo. Qua e là si aprono,
per contraddizione, degli spiragli
di senso: «A me spaventa ciò che
non muore mai e non cambia mai
forma. Anche per questo sono
fiero di essere umano, e serbo consapevolezza
della mia futura morte
con onore» (p. 39); «Non condivido
l’opinione, diffusa tra i miei colleghi che l’unica soluzione giusta
sarebbe di sopprimere la parte
umana dell’equipaggio. Forse sono
proprio gli umani quell’elemento
di caos che tiene in vita il mondo»
(p. 126). La cifra del lavoro umano
non è quindi l’efficienza meccanica
dell’automa, ma nasce da quel
fondo di imperfezione e finitudine
della nostra natura, che motiva la
cura delle cose e delle relazioni, la
creatività e la ricerca di significati,
cioè tutto ciò che può trasformare
il fatto di guadagnarsi il pane
quotidiano in un’esperienza che dà
spessore alla vita di una persona.
I dipendenti è un romanzo di
denuncia, un appello che non alza
i toni ma che si fa percepire nell’atmosfera
ovattata e priva di suoni
dello spazio; soprattutto, è una storia
che lascia al lettore le domande
giuste per riflettere sulla condizione
lavorativa, non nel XXII secolo del
titolo, ma già del presente.