Negli anni ‘80 emergevano le
prime evidenze scientifiche
del degrado dello strato di ozono
in atmosfera e della sua causa:
l’impiego di una classe di gas, detti
freon, nella refrigerazione e in alcuni
processi industriali. Nel 1987,
il Protocollo di Montreal avviò un
processo di cooperazione internazionale
che portò alla completa
sostituzione, su scala globale, dei
gas incriminati. Secondo le ricerche
più recenti, lo strato di ozono si sta
ricostituendo e il risanamento permanente
del celebre “buco” sarà
completo entro il 2050. Tra gli anni
’70 e ’80 veniva raggiunto un vasto
consenso scientifico sulle cause antropiche
dei cambiamenti climatici,
sfociato nella pubblicazione del
primo rapporto dell’IPCC nel 1990.
Nel 1997 fu siglato il Protocollo di
Kyoto per coordinare gli sforzi per
ridurre le emissioni climalteranti:
l’approccio top-down dell’accordo,
che assegnava ai Paesi obiettivi
specifici, fu fallimentare, e l’Accordo
di Parigi, siglato nel 2015, tentò
una strada completamente diversa,
basata su impegni volontari
da parte degli Stati. Un decennio
più tardi, le proiezioni dell’IPCC e
dell’Environmental Program delle
Nazioni Unite (UNEP) mostrano
chiaramente che le politiche attuali
non permettono di conseguire l’obiettivo
di Parigi, cioè di mantenere
l’aumento di temperatura al di
Charles F. Sabel – David G. Victor
Governare il clima
Strategie
per un mondo incerto
Donzelli, Roma 2024
pp. 286, € 30
sotto dei 2°C rispetto all’era preindustriale.
Perché alcune politiche di
governance ambientale globale
funzionano e altre no? È la domanda
alla quale cercano risposta i
politologi statunitensi Charles Sabel,
noto per le sue tesi a favore di
forme democratiche sperimentali,
e David Victor. Secondo gli AA., la
debolezza del governo globale del
clima risiede nella sua architettura,
basata sul modello dell’Assemblea
delle Nazioni Unite, che vincola
ogni decisione al raggiungimento
dell’unanimità. Lo dimostrerebbe
la storia del Protocollo di Kyoto
e dell’Accordo di Parigi: il primo
fallito perché troppo vincolante, il
secondo inefficace perché non vincola
realmente nessuna delle parti
firmatarie.
Per Sabel e Victor, la via di
uscita va ricercata in una riforma
sostanziale dei meccanismi di governo,
abbandonando il criterio
dell’unanimità e gli obiettivi globali,
per imboccare la strada di una
governance detta “sperimentalista”,
basata su accordi multilaterali ad hoc, sulla soluzione di problemi
specifici e locali, sul coinvolgimento
dei comparti industriali e della
società civile, tramite processi decisionali
decentrati a livello di settore
e di filiera. Si tratta di un approccio
ispirato ai processi di problem solving
in campo tecnico ed economico
che, secondo gli AA., ha mostrato
la propria efficacia proprio nel
caso del Protocollo di Montreal e
che potrebbe dare vita a un nuovo
modello di globalizzazione.
Il libro ha il pregio di esplorare
strade alternative ai modelli di governo
del clima finora sperimentati,
i cui limiti sono ormai ben noti
a tutti. Il carattere propositivo e
pragmatico del libro è il suo punto
forte e le argomentazioni degli AA.
meritano di essere prese in considerazione.
Nondimeno, restano alcuni
dubbi sulle loro analisi, a partire dal paragone tra il Protocollo
di Montreal e gli accordi sul clima.
Nel primo caso erano coinvolti alcuni
settori industriali, nel secondo
si tratta di ristrutturare tutto l’approvvigionamento
energetico globale,
reindirizzando una quantità
di investimenti mai mobilitata nella
storia e affrontando le resistenze di
comparti produttivi estremamente
influenti. In secondo luogo, gli AA.
sembrano sottostimare la portata
politica internazionale dei negoziati
sul clima, dove le dinamiche e le
decisioni prese rispecchiano complessi
equilibri di potere e il criterio
dell’unanimità ha perciò un effetto
stabilizzante.
In ogni caso, l’opera fornisce
abbondante materia per riflettere
sulle politiche climatiche globali e
sulla loro possibile riforma.