Europa centrorientale: le tensioni con Roma e la chiusura sovranista

«Dai nostri vicini, dai Paesi che condividono il progetto europeo abbiamo diritto di pretendere solidarietà. Non accettiamo lezioni, né parole minacciose. Serenamente ci limitiamo a dire che noi facciamo il nostro dovere e pretendiamo che l'Europa faccia il proprio senza darci improbabili lezioni»: le parole sono del presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, il tema gli sbarchi di migranti sulle coste nostrane. 

Si tratta della risposta - insolitamente risoluta rispetto al linguaggio felpato della diplomazia - che il nostro premier ha dato alla lettera diffusa il 19 luglio dai leader di Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia, tutti Stati membri dell'Unione Europea. 

I Paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrád (dal nome della città ungherese dove si riunirono per la prima volta nel 1991) si sono riuniti a Budapest e hanno ufficializzato la loro posizione in tema di immigrazione, rivolgendosi in una lettera all'Italia, Paese che è titolare di una buona parte del confine esterno dell'Europa. 

Dopo avere manifestato la loro disponibilità a dare «un contributo su richiesta alle attività dell'Ue ai confini meridionali della Libia e all'addestramento della Guardia costiera libica» nonché «sostegno nella gestione, protezione e garanzia delle condizioni di vita negli hotspot al di fuori del territorio dell'Ue», la lettera invita esplicitamente l'Italia a identificare i «veri richiedenti asilo prima che entrino nella Ue» e di fatto ribadisce il «no» al piano Juncker di redistribuzione dei profughi, piano che Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno già fatto fallire due anni fa. Si tratta di due elementi che hanno irritato il governo italiano, alle prese con un incremento degli sbarchi di migranti e con la scarsa collaborazione dei partner europei (vedi anche il caso dell'Austria). 

La presa di posizione conferma la crescente diffusione - in questo quattro Paesi - di un clima politico e sociale in cui prevalgono posizioni conservatrici e nazionaliste. Al tema è dedicato un articolo uscito sul numero di giugno-luglio di Aggiornamenti Sociali, La chiusura sovranista dell'Europa centrorientale, firmato da Dorota Dakowska, professore di Scienze politiche all'Université Lumière di Lione. Di seguito riportiamo due paragrafi dell'articolo, che può scaricato integralmente dagli abbonati o acquistato online



Rimettere progressivamente in discussione le istituzioni democratiche

I partiti nazionalisti, presenti sulla scena politica dei Paesi dell’Europa centrorientale dagli anni ’90, sono ormai al potere da alcuni anni. In Ungheria, il Fidesz (Unione civica ungherese) ha operato una svolta verso la destra conservatrice dalla fine degli anni ’90. Le misure radicali adottate dal suo leader e attuale primo ministro del Paese Viktor Orbán dopo la vittoria alle elezioni politiche del 2010 hanno portato a un ridimensionamento del sistema dei pesi e contrappesi. La maggioranza dei due terzi della Camera ottenuta da Fidesz ha reso possibile l’approvazione di una nuova Costituzione fortemente conservatrice nel 2011. Da quel momento, una serie di decisioni controverse ha determinato una perdita di autonomia del potere giudiziario, un indebolimento del pluralismo dei media e l’affermarsi di una retorica pubblica caratterizzata dai riferimenti nazionalisti. La chiusura annunciata in ottobre 2016 del quotidiano Népszabadszág e di altri giornali locali ha ridotto ancor di più lo spazio per l’opposizione nel dibattito pubblico. 

Viktor Orbán è divenuto un punto di riferimento per la destra conservatrice ed euroscettica polacca del partito Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS), che è andata al potere alle elezioni presidenziali e politiche del 2015, dopo otto anni di governo del partito liberale Piattaforma civica (PO). Non è la prima volta che il partito PiS va al potere. Il successo elettorale conseguito nel 2005 aveva dato vita a una coalizione di governo con un partito di destra nazionalista e radicale, la Lega delle famiglie polacche (LPR); la coalizione aveva preso alcune misure simboliche, ad esempio nel campo dell’educazione, ma non aveva cercato di capovolgere apertamente l’ordine istituzionale esistente. Oggi il PiS ha la maggioranza assoluta al Parlamento polacco e governa da solo. Il campo politico nazionale è ormai dominato da una maggioranza che promuove un programma sovranista, di rivincita contro le élite e sostenitore di una rivoluzione conservatrice. 

Il Governo polacco, guidato da Beata Maria Szydło, si è richiamato ai precedenti ungheresi per votare alcune leggi controverse, seguendo la linea indicata dal leader del partito Jarosław Kaczyński. I tentativi di indebolire la Corte costituzionale e il rifiuto di riconoscere i giudici nominati, in un modo un po’ precipitoso, dal Governo liberale prima delle elezioni del 2015, hanno determinato una crisi istituzionale senza precedenti. Il controllo sui media pubblici – ogni loro comunicazione deve essere coordinata in modo centralizzato e approvata da persone vicine al potere – ha dato luogo a numerosi licenziamenti o dimissioni di giornalisti di lunga esperienza. Tutto ciò è accaduto contestualmente alla nomina dell’ex primo ministro Donald Tusk, appartenente al PO, a Presidente del Consiglio europeo, una scelta che poteva apparire come una consacrazione per questo nuovo Stato membro della UE e un riconoscimento per i partiti europeisti e liberali (come era già accaduto con Jerzy Buzek, sempre del PO e Primo ministro polacco dal 1997 al 2001, Presidente del Parlamento europeo dal 2009 al 2012). Il tentativo da parte di Beata Szydło di impedire la riconferma di Donald Tusk nel suo incarico nello scorso Consiglio europeo del 9 marzo 2017 ha messo allo scoperto l’isolamento della Polonia, che non ha ricevuto il sostegno neanche di Viktor Orbán, il cui partito fa parte del Partito popolare europeo (PPE) così come il PO. 

In realtà, coloro che sono al governo in questa area dell’Europa e aderiscono a posizioni e pratiche autoritarie non possono essere facilmente collocati nell’asse politico sinistra-destra. Il primo ministro slovacco Robert Fico, al potere tra il 2006 e il 2010 e poi dal 2012 a oggi, è considerato di sinistra malgrado guidi una coalizione di governo con il Partito nazionale slovacco (Slovenská Národná Strana, SNS) di Jan Slota, che ha posizioni nazionaliste. Un’alleanza che gli è costata la sospensione dal Partito socialista europeo (PSE). Pur sostenendo l’adesione all’euro, il governo di Fico ha promosso riforme in contrasto con la politica liberale del precedente esecutivo, introducendo in particolare regole più severe in materia di licenziamenti e di ricorso ai contratti a tempo determinato. 

In Polonia, il consenso raccolto dal PiS è dovuto anche a una politica economica interventista e a una generosa politica sociale. La vittoria del 2015 non è solo frutto della stanchezza delle classi popolari nei confronti delle politiche liberali sostenute dai precedenti Governi, ma anche della distribuzione di regali elettorali come le medicine gratuite per gli anziani o un bonus mensile di 500 zloty (circa 115 euro) per ogni bambino. In Polonia come in Ungheria, i conservatori al potere hanno denunciato l’influenza esercitata sull’economia nazionale dai capitali stranieri, che i Governi degli ultimi venticinque anni avevano scelto di attirare, e anche con successo.
Sulla questione delle minoranze le coalizioni tra le destre nazionaliste finiscono con lo scontrarsi con le stesse posizioni xenofobe che alimentano. Quando era al governo in Slovacchia, l’SNS conduceva una politica ostile non solo contro i rom, ma anche contro la minoranza ungherese. Dal suo lato, Orbán ha concesso alcuni privilegi ai cittadini di un altro Stato ma con origini ungheresi e dal 2010 ha offerto loro la possibilità di avere la cittadinanza ungherese; una scelta che è stata percepita come una provocazione dai Paesi di cui sono cittadini, in particolare la Slovacchia, che non consente la doppia nazionalità. 

(...)

Il fronte comune contro i rifugiati… con qualche crepa

Il dramma dei rifugiati che tentano di raggiungere la UE ha messo a nudo le crepe della politica migratoria europea. Al di fuori della Germania della cancelliera Angela Merkel, pochi Governi europei hanno dato risposte politiche costruttive al flusso di centinaia di migliaia di rifugiati che fuggono la violenza e la miseria dei loro Paesi. La risposta dei responsabili politici dell’Europa centrorientale è stata estremamente cauta, anche se queste zone storicamente sono state terre di emigrazione economica e politica.

Se alcuni responsabili europeisti di questi Paesi erano propensi ad assumersi la propria parte di responsabilità e a impegnarsi ad accogliere una quota di rifugiati, i leader dei Paesi di Visegrád hanno fatto notizia per la loro radicale opposizione all’accoglienza dei rifugiati in Europa. La retorica xenofoba che tende a fare tutt’uno della popolazione musulmana, dei problemi di integrazione e del rischio terrorismo è certamente diffusa in Europa, ma è stata impiegata in un modo particolarmente virulento dai Capi di governo di questa regione. Nella Repubblica Ceca, il presidente Miloš Zeman si è distinto per le numerose critiche contro gli immigrati e i musulmani. Zeman ha fatto diverse dichiarazioni provocatorie, presumendo che non ci siano margini per l’assimilazione degli immigrati musulmani, in occasione delle aggressioni sessuali avvenute nella notte di Capodanno del 2016 a Colonia e degli attacchi terroristici in Francia. Se i poteri del Presidente ceco, eletto a suffragio universale diretto dal 2013, sono comunque limitati, queste dichiarazioni rischiano di avere un’ampia eco nell’opinione pubblica. A proposito della ripartizione dei migranti tra gli Stati membri della UE, i Primi ministri ungherese e slovacco sono giunti a presentare un ricorso davanti alla giustizia europea, a fine 2015, contestando il sistema delle quote. In Polonia, il leader del PiS ha messo in guardia contro le malattie e i “parassiti” che sono portati dai rifugiati, facendo propri slogan dei movimenti fascisti tra le due guerre.

Questi tentativi di strumentalizzazione non raggiungono per forza i risultati attesi. Il referendum ungherese sui rifugiati del 2 ottobre 2016, voluto da Orbán, si è rivelato un fallimento parziale. Se infatti il 90% degli elettori ha votato “no”, come indicato dal Governo, per rigettare l’idea di una rilocalizzazione obbligatoria delle quote di cittadini non ungheresi decisa dalla UE, la partecipazione al voto si è fermata al 40% e il referendum non ha raggiunto il quorum necessario del 50% per essere valido. L’importante percentuale di voti nulli (6%) è stata interpretata come una campagna derisoria in risposta alla propaganda del Governo imperniata sulla domanda «Lo sapevate?», che suggeriva un nesso di causalità tra i flussi dei rifugiati e gli attentati terroristici. La risposta della campagna alternativa («Lo sapevate? C’è una guerra in Siria») resta certamente una voce minoritaria, ma mostra che le opinioni sull’accoglienza dei rifugiati non sono unanimi.


24 luglio 2017
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