Educazione e crisi dei valori pubblici

Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica

Henry Giroux
La Scuola, Brescia 2014, pp. 204, € 15,50 (ed. or.: Peter Lang, New York 2012)
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2015
Al di là dell’analisi di singoli e specifici provvedimenti, è possibile individuare alcune linee di tendenza che accomunano le politiche scolastiche attuate dai Paesi occidentali negli ultimi venti o trent’anni? C’è un legame tra le politiche economiche che gli organismi internazionali portano avanti e le riforme della scuola? Come interpretare le frequenti proteste di studenti e insegnanti, al di là della semplicistica lettura che le relega a rivendicazioni ideologiche o salariali?

Un aiuto a comprendere può venire da questo libro, il primo ad apparire in traduzione italiana di Henry Giroux, un pedagogista statunitense che, nel suo Paese, è considerato tra i capiscuola della Critical pedagogy. Il volume consiste in una serrata ma leggibilissima disamina delle principali politiche scolastiche messe in atto negli Stati Uniti sotto le presidenze Clinton, Bush jr e Obama, alla luce, però, del più ampio quadro di riforme educative di impianto neoliberista che si sono diffuse a livello internazionale. Ne emerge una lettura di sicuro interesse anche per il lettore italiano, che potrà riflettere su temi quali il ruolo dell’educazione pubblica oggi, l’umiliazione della classe docente, l’effetto della misurazione dei risultati sulle pratiche didattiche, la depoliticizzazione della scuola, il nesso tra scuola e mondi produttivi e così via. Per questo, credo non si possa che apprezzare l’uscita in traduzione del volume di Giroux, tanto più da parte di un’editrice non vicina alla cultura radicale che vi è espressa.

La Critical pedagogy è una corrente della pedagogia contemporanea che, rifacendosi soprattutto a Paulo Freire, ai Cultural Studies e alle teorie neomarxiste che vedono la scuola come agente di riproduzione sociale e culturale, sostiene una visione progressista dei sistemi educativi. In quest’ottica, essa si propone diversi obiettivi: 1) individuare le pratiche didattiche che, anche inconsapevolmente, producono effetti discriminanti o di assoggettamento; 2) correggere le relazioni di potere eventualmente esistenti tra insegnante e alunno e tra culture dominanti e culture subordinate; 3) promuovere forme d’insegnamento che garantiscano a tutti gli uomini il pieno accesso alla partecipazione democratica nella propria comunità, attraverso lo sviluppo di quel senso critico che li rende capaci di comprendere e modificare i meccanismi (anche perversi) che dominano la società in cui vivono.

Per presentare con ordine le tesi dell’A., procederò sinteticamente lungo due questioni: quali politiche scolastiche ispira il neoliberismo, e con quali conseguenze? Più in profondità: la scuola è un bene pubblico o un bene privato?

Le riforme scolastiche avviate a partire dagli anni ’80 in larga parte del mondo occidentale sono state ispirate – questa è la tesi principale – ai principi del neoliberismo, secondo cui gli attori sociali, che si muovono secondo logiche di tipo economico, devono essere lasciati liberi di operare senza che lo Stato intervenga, nemmeno per garantire mobilità sociale, diritti ed equità attraverso un sostegno cospicuo all’assistenza sociale, alla sanità, alla ricerca e alla scuola. Con l’appoggio determinante di organismi internazionali quali l’OCSE, tali riforme hanno portato alla progressiva privatizzazione di una serie di servizi scolastici e alla sottomissione delle agenzie formative a logiche mercantilistiche.

Il caso americano analizzato da Giroux è lampante. Dai primi anni ’90, l’amministrazione di vari Stati della Confederazione ha aperto la strada all’istituzione di charter school, ovvero scuole gestite da privati ma finanziate in larga misura dallo Stato, le quali si impegnano a rispettare una serie di regole stabilite da un’apposita convenzione. Questa prassi, nel corso del tempo, ha portato però alla creazione di vere e proprie compagnie for profit che si dedicano al business della formazione, rispettando sì i prescritti parametri amministrativi e di efficacia, ma di fatto proponendo un’istruzione improntata non alla crescita integrale delle persone, ma al semplice addestramento di abilità immediatamente spendibili sul mercato del lavoro. Il tutto dietro il paravento della libertà di scelta accordata alle famiglie, che spesso, però, non sono in grado di vedere quale sia la reale portata della formazione che viene impartita ai figli. Queste scuole, inoltre, sono libere di reclutare i docenti a buon mercato, proponendo contratti temporanei che li pongono in condizione di sudditanza. L’istruzione viene standardizzata (gli insegnanti non sono più chiamati a fare progettazione didattica sui singoli gruppi, ma solo ad applicare percorsi uniformi e già predisposti), basata su pratiche di memorizzazione e misurata con test quantitativi. Per questo, una tale forma di scuola è accusata da Giroux (come pure da studiosi di altra appartenenza, tra cui ricordiamo Martha Nussbaum, nel suo Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2011) di minare l’apprezzamento per ogni forma di finezza intellettuale e le fondamenta della democrazia, poiché gli studenti non imparano più la creatività, né l’arte dell’argomentazione, né il pensiero critico, che sono alla base delle forme civili di convivenza libera.

Inoltre, la scuola neoliberista è accusata di fornire solo abilità professionali, ovvero addestramento invece di educazione. In primo luogo, questo ha ripercussioni sulla forma del sapere insegnato, con la progressiva predominanza delle competenze, cioè conoscenze applicabili in dati contesti operativi, che possono essere precisamente quantificate, consentendo così l’esatta determinazione del valore economico della persona che le possiede. In secondo luogo, cambiano i modi della formazione scolastica e professionale, con l’eliminazione delle materie “inutili” e la sostituzione con saperi pratici, l’introduzione di stage, l’utilizzo di sistemi di valutazione puramente quantitativi (i test INVALSI e PISA ne sarebbero un esempio) e così via. Infine, persino le finalità ultime del processo scolastico vengono riorientate, in modo da produrre anche l’interiorizzazione di certe disposizioni caratteriali e di un’etica del lavoro funzionale all’impresa post-fordista e globalizzata, che vuole un lavoratore “imprenditore di se stesso”, responsabile della propria formazione e impiegabilità, flessibile, disposto ai cambiamenti, incline a soddisfare alti livelli di performance, adattabile, dotato di spirito d’iniziativa. Un lavoratore – come hanno scritto in maniera penetrante Laval C., Vergne F., Clément P. e Dreux G. (La nouvelle école capitaliste, La Découverte, Paris 2011, 88) – sottoposto a un controllo minuzioso ma “elastico” del suo lavoro, perché da un lato è lasciato libero di organizzare la propria attività (e quindi gli si richiedono doti di intraprendenza e autonomia), ma dall’altro gli sono imposti obiettivi da raggiungere sempre più alti e dettagliatamente descritti, che finiscono per modellare il suo modo di lavorare.

Rispetto ad altre analisi dei sistemi scolastici della società globalizzata, quella di Giroux si concentra in maniera peculiare sull’esautoramento degli insegnanti, tema cui dedica ben quattro capitoli del libro. La sua tesi è che le politiche neoliberiste abbiano tolto loro il ruolo di public intellectual, cioè di intellettuali a servizio del bene comune, e li abbiano trasformati in burocrati dediti al disbrigo di routine educative, misurati per quanto i loro studenti sanno rispondere alle domande di un test. Giroux, invece, esercitando un ruolo “profetico”, che la pedagogia contemporanea ha spesso smarrito, richiama l’attenzione, da un lato, sul fatto che gli insegnanti (e la scuola) hanno un compito di attenzione educativa rivolto alla crescita di persone che spesso attraversano fasi problematiche della propria esistenza e talvolta provengono da contesti disagiati, tanto che essi rappresentano forse le uniche figure di riferimento su cui contare; dall’altro, che ai docenti, retribuiti con soldi pubblici, deve essere lasciata la libertà di essere persone di cultura a servizio della collettività, del suo progresso generale e della civiltà dei rapporti che vi si attuano, non di interessi privati, per quanto mascherati sotto le vesti della crescita economica.

Il libro di Giroux, seppure centrato principalmente sulla realtà nordamericana, offre quindi una lettura interessante anche rispetto al nostro Paese, dove il rapporto La buona scuola dovrebbe promuovere – nelle intenzioni del Governo Renzi – un dibattito esteso in vista di una riforma di ampia portata (<https://labuonascuola.gov.it>). L’idea di una scuola da ripensare mettendone al centro il ruolo sociale e comunitario, allora, non può esserci estranea, soprattutto perché le scelte in questo campo da parte delle autorità sono scelte politiche, e non fatalità dettate dalle circostanze di un impersonale “progresso” o della crisi. L’educazione non può essere considerata solo come addestramento del «capitale umano» a servizio della «economia della conoscenza», ma deve tornare ad essere reputata un diritto umano di cui tutti devono beneficiare nell’ottica del bene comune (secondo quanto afferma De Giorgi, L’istruzione per tutti. Storia della scuola come bene comune, La Scuola, Brescia 2010).

Se nel testo di Giroux la pars construens è forse più debole rispetto all’analisi critica, resta comunque tutto il valore di un libro che può aiutarci a pensare lungo i sentieri di una pedagogia impegnata su temi su cui si gioca il futuro delle comunità e delle persone in crescita.


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