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Editto di Milano: libertà religiosa e percorsi di democrazia

A 1700 anni dall’Editto di Milano, l’Anno costantiniano offre un’occasione di riflessione sul significato più profondo della libertà religiosa, che va oltre la semplice tolleranza e che si può costruire solo in un clima di vera laicità dello Stato, possibile solo in contesti di autentica democrazia
Fascicolo: febbraio 2013

Ricorre quest’anno – anche se non sembra possibile stabilire precisamente il giorno – il 1700esimo anniversario del cosiddetto Editto di Milano, l’atto con cui nel 313 d.C. Costantino, imperatore d’Occidente, e Licinio, imperatore d’Oriente, concessero «ai cristiani e a tutti gli altri libera scelta di seguire il culto che volessero, in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, PG 20, X, 5).

Le iniziative per marcare la ricorrenza sono molteplici e non hanno mancato di suscitare fin da subito un vivace dibattito in merito all’interpretazione dell’evento, come dimostrano le numerosissime reazioni al discorso di Sant’Ambrogio, con cui il 6 dicembre 2012 l’arcivescovo di Milano, card. Angelo Scola, ha aperto l’Anno costantiniano (per il testo del discorso e le iniziative dell’Anno costantiniano cfr <www.chiesadimilano.it>; per una raccolta di reazioni al discorso, si veda anche <www.c3dem.it/3928>).

L’anniversario dell’Editto di Milano, infatti, rappresenta un’occasione per continuare a riflettere su libertà religiosa, laicità dello Stato, ruolo pubblico della/e religione/i, rapporto fede-politica: temi che restano fondamentali per la qualità della democrazia nel nostro Paese, in particolare alla vigilia delle elezioni – che ci ripropongono ad esempio la questione del voto “cattolico” o “dei cattolici” –, ma ancor più nel contesto europeo, nel quale le tradizioni e le sensibilità nazionali, ad esempio sul tema della laicità, restano profondamente diverse.

Nella storia e nell’immaginario

La pluralità di letture dell’evento storico si radica in una sua certa ambiguità: nel ricordare come esso sia stato autorevolmente definito «l’initium libertatis dell’uomo moderno», il card. Scola non teme di aggiungere che si tratta di un «inizio mancato». Anche senza entrare nella diatriba storica sulle precedenti concessioni della libertà di culto ai cristiani da parte dell’autorità imperiale romana (Gallieno nel 260 e Galerio nel 311), va ricordato come all’Editto di Milano seguirono in realtà fatti di segno opposto, quali le persecuzioni a ebrei e pagani da parte dello stesso Costantino. Non solo: meno di settant’anni dopo, il 27 febbraio 380, con l’Editto di Tessalonica l’imperatore Teodosio dichiarò il cristianesimo unica religione legittima nell’Impero, con la minaccia di sanzioni penali per chi ne professasse altre: «Vogliamo che tutti i popoli a noi soggetti seguano la religione che il divino apostolo Pietro ha insegnato ai Romani e che da quel tempo colà continua e che ora insegnano il pontefice Damaso e Pietro, vescovo di Alessandria […]. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno stolti eretici, né le loro riunioni potranno essere considerate come vere chiese; essi incorreranno nei castighi divini e anche in quelle punizioni che noi riterremo di infliggere loro».

Indipendentemente dalla esatta ricostruzione storica, resta comunque vero che l’Editto di Milano rappresenta uno spartiacque nell’immaginario collettivo dei cristiani e per questo ha avuto un effetto reale nella storia. Esso segna infatti l’uscita dalle catacombe, la fine delle persecuzioni e della Chiesa primitiva, ma soprattutto marca l’inizio del tempo della cristianità sulla base del riconoscimento pubblico della verità del cristianesimo. Per questo, anche all’interno della Chiesa, è da taluni celebrato e da altri considerato il simbolo del tradimento del Vangelo e il germe della storia del nefasto legame della Chiesa con il potere: «La storica, indebita commistione tra il potere politico e la religione – nota il card. Scola – può rappresentare un’utile chiave di lettura delle diverse fasi attraversate dalla storia della pratica della libertà religiosa». Concetto che – bisogna riconoscerlo – in ambito cattolico, dopo l’initium libertatis, non è stato molto apprezzato, né tanto meno praticato. Alla Chiesa cattolica è sempre stato rimproverato di reclamare la libertà per sé dove si trova in minoranza, e di rifiutare di concederla quando è in condizione di maggioranza.

 Questo almeno fino al Concilio Vaticano II e, in particolare, alla Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, approvata il 7 dicembre 1965, in conclusione dell’assise conciliare. Ad essa si richiama il card. Scola fin dalle prime righe del discorso di S. Ambrogio, definendola un vero e proprio cambiamento di direzione della Chiesa nel suo insieme (e non solo di qualche suo membro): «con la dichiarazione conciliare venne superata la dottrina classica della tolleranza per riconoscere che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa”». Per molti versi possiamo quindi dire che la Dignitatis humanae rappresenta un nuovo inizio in quella storia della libertà di cui anche l’Editto di Milano è uno snodo cruciale. L’anno costantiniano ci induce dunque a rileggere questa complessa vicenda storica, per consolidare, con la libertà che sgorga dalla verità, il rinnovamento del nostro immaginario.

Tolleranza, libertà religiosa, laicità

Uno dei punti più dibattuti è se l’Editto sia un atto di tolleranza (non particolarmente innovativo) o se, per la prima volta, vi si affermi la nozione di libertà religiosa. I sostenitori della prima ipotesi leggono il documento alla luce degli editti che lo precedono e lo seguono, evidenziando come esso sia il frutto di un paganesimo che mitigava le proprie posizioni e, nel suo sincretismo, faceva spazio anche ai cristiani. Chi propende per la seconda ipotesi lo vede come il primo documento in cui una struttura statuale si sgancia dal patto con i propri dèi tradizionali per affermare che il rapporto tra l’uomo (e l’intera società) e Dio è basato sulla libertà. Scrive ad esempio la storica Marta Sordi: «il diritto della divinità ad essere adorata come vuole fonda la libertà di tutti a praticare il proprio culto e la propria fede religiosa secondo coscienza» (I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2004).

A prescindere dalla questione storica, tolleranza e libertà religiosa sono un binomio che spesso rimane celato dietro una più generica invocazione della “neutralità” dello Stato e che invece vale la pena approfondire. È indubbio infatti che la tolleranza sia un grande passo avanti nella direzione del rispetto della dignità della persona in situazioni di conflitto violento o di persecuzione, dove può produrre risultati davvero notevoli. Ben lo sanno coloro che vivono in Paesi in cui la persecuzione religiosa è ancora una tragica realtà. Ma in contesti da questo punto di vista più fortunati, come il nostro, essa rappresenta una base estremamente esigua per la vita sociale: sono troppe le scelte collettive in vista del bene comune che incorporano una gerarchia di valori; questo vale per i grandi temi della tutela della vita nascente e morente o dell’educazione, ma anche quando si tratta di stabilire le politiche fiscali o la riforma del welfare. Dove sono indispensabili scelte collettive con valore erga omnes, cioè nello spazio proprio della politica, serve – almeno in un regime autenticamente democratico – una interazione tra le componenti della società: per questo scopo la tolleranza è condizione necessaria ma non sufficiente. Inoltre occorre interrogarsi sul rischio concreto di scivolare verso la noncuranza o, implicitamente, verso la svalutazione dell’altro e di ciò a cui egli attribuisce valore in nome di una tolleranza generica che, in realtà, può trasformarsi in dichiarazione di irrilevanza.

Un autentico rispetto contiene invece la spinta verso il proprio trascendimento: esso domanda infatti non l’adesione, ma lo sforzo di comprendere il senso profondo dei valori che il comportamento dell’altro afferma e della ricerca di pienezza di umanità che il suo percorso di vita rappresenta. Si generano così una tensione e una disponibilità a mettersi in discussione che spingono a passare dalla tolleranza al mutuo riconoscimento. Può sembrare un’opzione a chi è in posizione di forza, ma è questa la battaglia di tutte le minoranze (religiose, etniche, culturali, di genere, ecc.), che in radice chiedono non di essere “tollerate” (nel senso di “sopportate”), ma riconosciute nei valori di cui sono portatrici e nella capacità di recare un contributo al bene comune. È questo – insegna Giovanni Paolo II nel n. 34 dell’enciclica Centesimus annus (1991) –, insieme alla tutela del diritto alla vita, che la giustizia esige che sia riconosciuto all’uomo, e a ogni uomo, «in forza della sua eminente dignità». Il percorso dalla tolleranza al riconoscimento, in virtù dello sforzo che domanda, andrà giocato dove davvero vale la pena: in molti ambiti della vita sociale (ad esempio il diritto di ogni gruppo o comunità di organizzarsi come meglio crede), una prospettiva sanamente neutrale sarà sufficiente a evitare i problemi.

Per altro verso, il riconoscimento resta qualcosa che non si può pretendere se non si è disponibili a un cammino serio di dialogo. Per essere riconosciuti e apprezzati, i valori richiedono di essere spiegati, argomentati, praticati nella convivialità delle differenze, in una parola, appunto, “dialogati”. Di questa fiducia di base nella ragione e nella ragionevolezza umana parla, ad esempio, il filosofo tedesco Jürgen Habermas, il cui dialogo con l’allora card. Ratzinger è rimasto un punto di riferimento sul tema (cfr Habermas J., Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005); lo stesso vale per la Dignitatis humanae, quando al n. 3 afferma: «La verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: […] per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta». Numerosi sono poi i successivi riferimenti del Magistero sul dialogo tra ragione e fede religiosa (di ogni confessione) come condizione per un autentico sviluppo, come ad esempio il n. 56 dell’enciclica Caritas in veritate (2009).

Ben si comprende allora come la piena libertà religiosa – che include la libertà della religione dal fondamentalismo, aggiungerebbe la Caritas in veritate – sia una condizione di possibilità di questo dialogo: come potrebbe impegnarvisi chi non si sentisse davvero libero? È questa una ulteriore ragione per cui è dovere dell’autorità pubblica promuovere e tutelare la libertà religiosa.

Si colloca qui, non solo a nostro avviso, la radice di una corretta interpretazione di quella laicità dello Stato che, nella pluralità delle interpretazioni di cui è storicamente oggetto, resta un tema spinoso e non pienamente digerito nella coscienza europea. «Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»: così argomenta la Corte costituzionale nella sentenza n. 203 del 1989. Intesa in questo che è il suo senso corretto, la laicità della nostra Costituzione pare sufficientemente robusta per resistere al rischio di scivolare verso il laicismo, cioè l’indifferenza implicitamente svalutante verso ogni fenomeno religioso.

Il riferimento alla Costituzione ci ricorda che la laicità trova nella democrazia il suo pendant inseparabile. Fa molta differenza collocare il discorso sulla libertà religiosa in un contesto di democrazia costituzionale invece che in una realtà statuale autocratica come l’Impero costantiniano. Per una democrazia fondata su una Costituzione a base personalista come quella italiana è infatti automatico pensare che esistono valori, diritti e doveri che precedono l’esistenza stessa dello Stato e del suo ordinamento; che persone e gruppi sociali mantengono una sfera di autonomia originaria che l’autorità non può violare (a riguardo cfr l’articolo di Luca R. Perfetti, «Politica delle riforme e sovranità della persona», in Aggiornamenti Sociali, 1 [2013] 14-25); che il principio di maggioranza non coincide con la legge del più forte perché la ricerca del bene comune si fonda su un dialogo fra le diverse posizioni (è questo il senso del Parlamento, fin dal suo stesso nome) e che nessuna deliberazione potrà ledere i diritti fondamentali della minoranza che ne dissente. Fa parte del DNA della democrazia attivare percorsi di mutuo riconoscimento fra cittadini e corpi intermedi, la cui portata civile supera di gran lunga la tolleranza più o meno benevolmente elargita.

Nella pratica, però, le buone intenzioni sono spesso contraddette, se non addirittura negate. Aver fatto memoria del legame profondo tra laicità sana e democrazia autentica ci aiuta a individuare anche una origine comune dei possibili problemi. Se la pianta della laicità attecchisce e prospera solo sul terreno della democrazia, la sua sopravvivenza non potrà che essere a rischio quando la democrazia entra in crisi, per l’ingresso nello spazio pubblico di logiche e pratiche che le sono estranee: giochi di potere, conflitti di interessi, lobby, corruzione e peculato, primato dell’interesse privato sul bene comune, clientelismi, leggi ad personam, spreco delle risorse pubbliche. Quando ciò che è fondamentalmente di tutti diventa solo di qualcuno, sarà difficile mantenere aperti gli spazi del dialogo e del rispetto reciproco, anche nel campo della libertà religiosa.

Il compito della Chiesa

È questo il contesto concreto in cui si collocano le celebrazioni dell’anniversario costantiniano, che ci sembra rivolgere un triplice appello alla Chiesa italiana.

Il primo è certamente quello a rileggere con onestà e libertà la storia a cui l’Editto di Milano dà il via, così da imparare a riconoscere l’aiuto che la Chiesa ha ricevuto da posizioni diverse dalle proprie per capire come la libertà religiosa faccia parte del suo patrimonio. Tale rilettura condurrà anche ad ammettere che sono ancora in circolazione scorie meno nobili, che rappresentano una pericolosa tentazione: quella di cercare nel rapporto con il potere scorciatoie per costituirsi posizioni di privilegio. Questo tentativo di strumentalizzare il potere – con il rischio di essere strumentalizzati da chi cerca il potere per i propri scopi – è una deriva altrettanto pericolosa di quella che fa degenerare la laicità in ideologia laicista.

Non è questa la strada inaugurata da Gesù – ricorda la Dignitatis humanae –, che nella sua predicazione rinuncia a ogni forma di coercizione, cioè all’utilizzo del potere; allo stesso modo, «Fin dal primo costituirsi della Chiesa i discepoli di Cristo si sono adoperati per convertire gli esseri umani a confessare Cristo Signore, non però con un’azione coercitiva né con artifizi indegni del Vangelo, ma anzitutto con la forza della parola di Dio» (n. 11). Come dice il card. Scola citando Agostino e Benedetto XVI, il riferimento è all’esperienza di essere trovati e presi dalla verità, ben più che di cercarla e possederla e quindi anche imporla. Si tratta di una esperienza umana fondamentale: «se si affronta in modo serio l’umano – dice il filosofo Silvano Petrosino commentando il discorso del card. Scola (Nardi P., « La sfida antropologica e la buona laicità», 10 dicembre 2012, in <www.incrocinews.it>) –, non si può non riconoscere che è abitato da qualcosa che supera l’umano stesso. L’uomo è abitato da un desiderio di un’apertura all’infinito che non può né evitare né dominare, perché nella misura in cui tentasse di eliminare questa apertura, questa verità che lo chiama, l’uomo si dissolverebbe come tale». In una società che si muove su uno spettro che va dal materialismo pratico della società dei consumi ai fondamentalismi di ogni tipo, ulteriore compito della Chiesa e dei credenti è promuovere con rispetto questa esperienza, sia offrendo nuove opportunità di compierla, sia tutelando i luoghi in cui si riconosce che essa avviene (ad esempio in occasione dei momenti chiave dell’esistenza, come nascita, morte, scelte di vita, ecc.), anche se attraverso prospettive laiche o di diversa confessione. La libertà religiosa rischia di rimanere atrofica per tutti coloro che, complice la secolarizzazione, hanno nessuna o poche occasioni di fare esperienze intimamente spirituali e/o religiose.

L’ultimo appello – lo ricordavamo anche il mese scorso – è quello a rinnovare con convinzione l’opzione fondamentale per la democrazia, visto il suo legame profondo con la libertà religiosa e la laicità sana. La fatica o l’erosione della nostra democrazia, italiana e non solo, viene certamente dai guasti di una cattiva politica o dai rigurgiti populisti alimentati dalla crisi. Contro entrambi è doveroso lottare. Ma – forse persino più profondamente – essa deriva anche dal fatto che non si può più far conto su quelle che il card. Scola chiama «visioni etiche “sostantive”», che in passato davano unità e coesione alla società, fornendo l’orizzonte di significato e di valore. In modo spesso non tematizzato, le democrazie occidentali hanno potuto appoggiarsi su queste visioni condivise, non di rado almeno implicitamente di matrice religiosa, e oggi faticano a fare i conti con la «pluralità di religioni e di mondovisioni». Siamo così riportati a una condizione che, almeno in Occidente, ci rimanda a prima dell’inizio della “cristianità”, cioè al mondo in cui viene proclamato l’Editto di Milano e alla vicenda di cui esso è l’«inizio mancato». E forse è proprio il dibattito democratico l’ingrediente di cui oggi possiamo disporre per intraprendere una diversa traiettoria.

Nelle parole del card. Scola, la libertà religiosa, che l’anniversario costantiniano ripropone alla nostra attenzione, ci indica la sfida «della elaborazione e della pratica, a livello locale ed universale, di nuove basi antropologiche, sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo terzo millennio», che «deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società». Questa sfida potrà essere vinta non in nome di una nuova utopia umanistica omnicomprensiva né accontentandosi di trovare un minimo comun denominatore, ma sulla base di un processo democratico di apprendimento reciproco, che richiede continua creatività di fronte all’incessante mutamento delle situazioni sociopolitiche. Solo a questa condizione le molte differenze presenti nella nostra società non rappresenteranno un dato sempre più banale, ma sapranno dare vita – è l’intuizione conclusiva del discorso di Sant’Ambrogio – a un processo storico (non a un progetto sincretistico a base ideologica) di «meticciato di civiltà e di culture».

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