ArticoloEditoriali

Dov’è il nostro coraggio?

Con la conclusione anticipata della legislatura, la politica si ripresenta in modalità “ordinaria”. Siamo condannati all’eterno ritorno di uno scoraggiante scenario? Dove trovare le forze per continuare a sostenere le forze democratiche del Paese? Le prossime elezioni sono un appuntamento decisivo
Fascicolo: gennaio 2013
All’inizio di dicembre, il ritiro del pieno sostegno del PDL al Governo Monti ha segnato la conclusione anticipata della legislatura. Con questa mossa, fa il suo ritorno anche la politica in modalità “ordinaria”, dopo un anno di funzionamento in modalità “provvisoria”, sotto la guida del Governo tecnico sostenuto da una “strana” maggioranza. È un ritorno certamente sgangherato, con un’accelerata che ci saremmo volentieri risparmiati e che per qualche giorno ci ha fatto sentire di essere ripiombati in un vecchio incubo. In realtà la conclusione della legislatura è anticipata solo di qualche settimana rispetto alla scadenza naturale, l’aria di campagna elettorale era già percepibile da tempo e, ripensandoci meglio, non può destare troppa sorpresa che questo sia il modo con cui la politica è rientrata in scena: in fondo, riprende più o meno dal punto in cui l’arbitro aveva fischiato la sospensione del gioco.

Contrariamente però a quanto può sembrare, non siamo condannati all’eterno ritorno di uno scoraggiante scenario. Come vedremo, molte cose sono cambiate e stanno cambiando nella società italiana: sarà questo a favorire anche il cambiamento indispensabile nella nostra politica; mentre sarebbe stato irrealistico pensare che essa fosse in grado di anticipare il rinnovamento della società.

Cambiare gioco

Nessuno spazio quindi allo scoraggiamento o alla tentazione di guardarci alle spalle: oggi più che mai è poco utile attardarsi a parlare ancora di Silvio Berlusconi, del suo circo pre-elettorale e degli effetti nefasti del berlusconismo di destra, da cui una certa sinistra non è immune. Giocare a “berlusconiani contro antiberlusconiani” scalda ancora gli animi, almeno quelli delle tifoserie più accese, ma appesantisce la lucidità del pensiero, e non possiamo accettare che sia questo – per la sesta volta consecutiva! – il Leitmotiv della campagna elettorale.

A metà del 2011 abbiamo registrato segnali di apertura di una fase nuova nella vita del Paese (cfr Costa G., «Il gusto del “vento nuovo”», in Aggiornamenti Sociali, 07-08 [2011] 485-489).
È questo il momento di tornare a quelle sensazioni, per ritrovare energia da investire nel consolidamento di questa novità, di cui continuiamo a vedere i segni. A questo ci invitava anche la Chiesa italiana; il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nel settembre 2011 rivolgeva questo invito: «C’è da purificare l’aria, perché le nuove generazioni – crescendo – non restino avvelenate. Bisogna reagire con freschezza di visione e nuovo entusiasmo, senza il quale è difficile rilanciare qualunque crescita, perseguire qualunque sviluppo» (Prolusione all’apertura del Consiglio Episcopale Permanente, 26 settembre 2011). A inizio dicembre 2012 l’appello diventava ancora più pressante, in nome della necessità di salvare quelle novità positive che un anno di sacrifici ha prodotto: «Fino a quando ce la farà l’Italia? […] il Governo tecnico ha messo al riparo da capitolazioni umilianti e altamente rischiose. Non si può mandare in malora i sacrifici di un anno, che sono ricaduti spesso sulle fasce più fragili» (Vecchi G. G., «Bagnasco: “Non si mandino in malora tutti i sacrifici fatti dai cittadini italiani”», in Corriere della sera, 10 dicembre).

Un po’ d’aria nuova è entrata in questi mesi – è importante riconoscerlo –, ma non possiamo ancora richiudere la finestra, perché il ricambio d’aria non è ancora effettivamente avvenuto. Abbiamo provato il gusto di una vita politica che assomiglia a quella di un Paese normale, di cui poterci non vergognare. La politica, soprattutto nel suo aspetto di partecipazione civica, torna a destare interesse, anche nelle comunità cristiane, a lungo rimaste spettatrici afasiche e spaventate.

La sfida ora è quella di fare un passo deciso verso una normalità che possa perdurare anche senza il sostegno del Governo tecnico “straordinario”. Il passaggio è delicato e scivoloso, e c’era da aspettarsi che a questa svolta si sarebbero riaffacciati “i fantasmi del passato”: ma bastano le ombre di un brutto sogno a spaventarci e paralizzarci? Dove sono finiti speranza, coraggio ed entusiasmo?

La crisi morde e li erode, certamente. Nutrire la speranza non significa infatti essere ingenui. Le difficoltà che il Paese attraversa sono enormi: diminuzione di produzione e reddito, aumento delle disuguaglianze, immobilità sociale e territoriale, debito pubblico smisurato, blocco demografico, riduzione degli investimenti, perdita di produttività, fuga dei cervelli, chiusure localistiche e corporative. Ce lo dicono il rincorrersi di dati statistici, rapporti e indagini, così come l’esperienza diretta di tante persone.

Le energie servono ad affrontare questi problemi e per recuperarle può essere utile ripercorrere l’esperienza che abbiamo fatto come società in questo ultimo anno, dirci che cosa abbiamo imparato e riconoscere che cosa ancora non siamo riusciti a cambiare. Registrare i movimenti avvenuti è la terapia migliore per uscire dalla paralisi indotta dalla paura e dall’impressione che nulla cambi, così da rifondare l’impegno a partecipare, ciascuno con il ruolo che ha, con il compito che gli spetta.

Imparare da un anno “strano”

Se guardiamo al 2012, non possiamo fare a meno di registrare importanti novità. Tutti, anche coloro che dissentono sul suo operato, devono riconoscere che il presidente Mario Monti ha permesso all’Italia di riacquistare credibilità europea e internazionale, che non si misura solo con uno spread (più o meno) sotto controllo, ma con gli effetti di competenze qualificate messe a servizio del Paese e tradotte in azione, in riforme. Questo restituisce dignità all’Italia e toglie terreno alla speculazione finanziaria.

Nonostante tutti i limiti e le diverse valutazioni che si possono dare di ciascun provvedimento (come abbiamo fatto anche sulle pagine di Aggiornamenti Sociali), dopo anni di immobilismo e di produzione legislativa destinata a risolvere problemi personali anziché a incidere su quelli del Paese, non si può che guardare con soddisfazione a un Esecutivo che effettivamente prova a fare quanto è di sua competenza. Basta scorrere i nodi affrontati dai principali provvedimenti approvati dal Governo Monti: il consolidamento dei conti pubblici (decreto “Salva Italia”, 6 dicembre 2011, su cui cfr M.F. Ambrosanio, in Aggiornamenti Sociali, 12 [2012] 840-851); la concorrenza e le liberalizzazioni (decreto “Cresci Italia”, 20 gennaio 2012); le semplificazioni fiscali (d.l. 24 febbraio); riforma del mercato del lavoro (la “Riforma Fornero”, del 23 marzo, su cui cfr F. Origo, in Aggiornamenti Sociali, 6 [2012] 544-548); la riforma del sistema fiscale (16 aprile); lo sviluppo (con i due decreti del 15 giugno e 4 ottobre); il d.l. sulla spending review (6 luglio); i costi della politica nelle Regioni (d.l. 4 ottobre). Senza dimenticare l’impegno per il risanamento del bilancio dello Stato, la lotta all’evasione fiscale (punto di rottura rispetto a chi lo aveva preceduto), gli interventi sulla giustizia civile. Come sempre, ex post è facile sostenere che si sarebbe potuto fare di più e meglio, ma certo molto è stato fatto.

Ma le novità non vengono solo dal Governo Monti. Segnali di un passo diverso si sono registrati anche nel lavoro del Parlamento; forse in omaggio a dogmi liberisti di neutralità del fisco, il ddl stabilità uscito dal Governo tecnico e dal Ministero dell’Economia (9 ottobre 2012) prevedeva una riduzione generalizzata delle imposte sui redditi (“limatura” dell’aliquota sui primi due scaglioni), spalmando su tutti i contribuenti un beneficio di cui avrebbe goduto soprattutto la classe media, a fronte di un aumento dell’IVA sui beni di largo consumo che avrebbe avuto un impatto biecamente regressivo sulle fasce più deboli. La legge che uscirà dal Parlamento – non ancora approvata nel momento in cui scriviamo – avrà una fisionomia ben diversa, concentrando gli sgravi là dove risultano più strategici (sui redditi da lavoro). È probabilmente il più significativo, ma non l’unico punto in cui la politica ha saputo fare il proprio mestiere (ordinare le priorità strategiche) e addirittura migliorare il lavoro dei tecnici. Sembra incredibile, ma nel 2012 è successo anche questo, e, se saprà continuare su questo cammino, della politica potremo tornare a fidarci.

Certo in questa panoramica del 2012 non possiamo dimenticare il ruolo e gli interventi di Napolitano, anch’egli indubbiamente un “politico”, e rappresentante di un modo alto di interpretare la politica. Non a caso è questo che ha ricordato incessantemente ai partiti, fin dal Messaggio di fine anno del 2011: «un vasto campo è aperto per l’iniziativa dei partiti e per la ricerca di intese tra loro sul terreno di riforme istituzionali da tempo mature. Queste sono necessarie anche per creare condizioni migliori in vista di un più costruttivo ed efficace svolgimento della democrazia dell’alternanza nello scenario della nuova legislatura dopo il ritorno alle urne».

Il punto qui – è bene ricordarlo – non è celebrare chi ha fatto bene, magari alla ricerca di un nuovo demiurgo, ma tornare a “sentire” quello che ha dato aria ai nostri polmoni. Legittimamente ciascuno farà riferimento a occasioni diverse: la cosa importante è riappropriarci del gusto di quella esperienza, del gusto dell’entusiasmo e dell’impegno, per lasciarcene guidare nei mesi a venire. È questa la strada per tornare a far nostra un’attività, la politica, che è cruciale per le nostre vite: non possiamo permetterci di rinchiuderci in una (presunta) torre d’avorio, in nome di una reazione a scandali ingiustificabili o di una comprensibile delusione che rischiano però di scivolare nel qualunquismo autolesionista dell’antipolitica e di minare la spinta all’impegno. Sarebbe, per i cristiani certamente, ma in fondo per tutti i cittadini, venire meno a un preciso dovere, come ci ricorda il contributo di Christian Mellon alle pp. 73-76 di questo fascicolo.

In questa chiave, torna altrettanto utile provare a guardare a quello che ci ispira meno. In questo anno di politica in modalità provvisoria, con una sospensione dello scontro, i partiti avrebbero avuto molte opportunità per riguadagnare credibilità agli occhi degli italiani. In primo luogo con la tanto agognata riforma della legge elettorale. Così non è stato – come il presidente Napolitano ha stigmatizzato nella lettera inviata il 28 novembre all’on. Roberto Giachetti – a causa di un «interminabile braccio di ferro, giuoco degli equivoci, ripetuto alternarsi di opposti irrigidimenti, da cui è stato messo a grave rischio il mantenimento di un impegno assunto da tutte le forze politiche in risposta ad aspettative più che comprensibili diffuse tra i cittadini-elettori». La latitanza dei partiti sul fronte della riforma elettorale si accompagna all’assenza di interventi su se stessi e sui costi della politica (i provvedimenti in materia sono infatti di fonte governativa), nemmeno in risposta agli scandali più degradanti. Sarebbe facile continuare con i cahiers de doléances, ed è quanto spesso prevale nell’opinione comune: anche i sentimenti di rabbia o di impotenza sono però una fonte di energia e possono spingerci a chiederci che cosa possiamo fare come cittadini. Specie se passano al vaglio di un confronto costruttivo.

Il ritorno della politica

La ricognizione dei giacimenti di energia è di fondamentale importanza per affrontare il ritorno della politica in modalità ordinaria. In realtà – è bene ricordarlo – la politica e la democrazia non sono mai andate via: Monti ha governato perché è stato nominato dal Presidente della Repubblica e ha ottenuto la fiducia del Parlamento, condizione necessaria e sufficiente per governare in Italia sulla base della nostra Costituzione.

Necessariamente la politica torna con i partiti e i volti di prima, per questo – come dicevamo – non deve stupirci se lo fa in modo sgangherato. Non basta un anno per un vero rinnovamento. Ma è importante notare quanto oggi infastidisca un modo di procedere che fino a un anno fa sembrava doversi considerare normale. La vera novità è che la politica di prima oggi ha di fronte un Paese mutato.

Nei confronti della politica almeno una porzione degli italiani non è più la stessa. Ne è un segno tangibile il successo delle primarie per la scelta del candidato premier del centrosinistra: gli oltre tre milioni di cittadini che si sono recati alle urne, sostenendo un costo e talvolta qualche disagio, indicano che il desiderio di partecipazione è grande e che non tutto e non tutti sono fagocitati dall’antipolitica. A prescindere dall’accordo personale con l’uno o l’altro dei programmi, le primarie del centrosinistra sono state un passaggio importante per la ricostruzione del rapporto del Paese con la politica, o meglio per l’inizio della riappropriazione della politica da parte dei cittadini, ed è un peccato che questo strumento resti al momento limitato a una sola “parte”. In questa fase almeno, le primarie (anche per scegliere i candidati al Parlamento) possono essere uno strumento di promozione della partecipazione e di consolidamento della democrazia.

È sempre più vero, infatti, che, in Italia e non solo, la nuova frontiera della politica è quella fra democrazia e populismo, che rimpiazza la vecchia opposizione tra destra e sinistra da cui, purtroppo, un certo conservatorismo italiano fatica a staccarsi, riducendo la politica a tifo da stadio. In vario modo, in attesa di un suo schieramento che nel momento in cui scriviamo è eventuale, quelle che tradizionalmente sono destra e sinistra sembrano fare a gara per intestarsi l’azione e la stessa persona di Monti, evidentemente a caccia del consenso che la sua persona attira. Ma in questo nessuna delle due risulta convincente: è difficile dire se Monti sia più di destra o più di sinistra non perché è ambiguo, ma perché quelle categorie sono ormai inadeguate. Qualcosa del genere si può affermare anche per alcune controversie intorno alla figura di Matteo Renzi in occasione delle primarie del centrosinistra.

La politica che sta tornando alla ribalta a questo proposito è probabilmente un po’ più chiara, nel senso che appare più netto il confine tra posizioni populiste (pur di orientamenti e con modalità molto vari: dalla Lega a Berlusconi, al Movimento 5 Stelle, per finire all’Italia dei valori e al nascente “quarto polo arancione”) e posizioni democratiche. Le sovrapposizioni paiono in via di diminuzione.

In questo scenario anche la Chiesa e i cattolici sono chiamati a rinnovare la propria opzione a favore della democrazia. Questo significa tra l’altro resistere alla tentazione nascostamente populista di identificare qualcuno sotto la cui ala protettiva schierarsi in modo acritico, chiunque egli sia – un errore costato caro in passato –, e soprattutto abbandonare qualunque idea di lobby cattolica: la strada è quella di favorire la partecipazione e l’impegno, nel legittimo pluralismo tra le opzioni autenticamente democratiche.

Ciò che le accomuna, in un momento certamente ancora difficile, ci sembra la disponibilità a prendere sul serio la maturità dei cittadini e la capacità di dire la verità rinunciando alle promesse mirabolanti o ai proclami ideologici. Anche nella politica italiana oggi, dire la verità risulterà liberatorio: permetterà di riconoscere che il nostro debito pubblico è un problema reale e non virtuale, che il rigore nei conti pubblici è una virtù e non un vizio, ma al tempo stesso che lo strapotere della finanza e della speculazione va arginato e le rendite di posizione aggredite. Le modalità con cui farlo potranno divergere nei programmi politici, anche se verosimilmente non di molto, ma per certi versi e almeno in questa fase, quale scegliere è meno importante che assicurarsi di sceglierne uno realistico.

Una prospettiva democratica e costituzionale, poi, non potrà limitarsi alla buona gestione del bilancio pubblico né, soprattutto, valutare solo su questo parametro le profonde riforme di cui il Paese ha ancora bisogno. Il welfare italiano deve cambiare, perché così com’è risulta insostenibile, ma la sostenibilità non è l’unico standard del welfare che vogliamo: una sua riforma, non tecnica ma autenticamente politica, democratica e costituzionale deve rimettere al centro la questione della tutela dei diritti fondamentali. Su questo punto occorre riarticolare le categorie con cui sono pensati problemi e soluzioni (a riguardo segnaliamo il contributo di Luca R. Perfetti, qui alle pp. 14-25). Un discorso analogo vale per i molti interventi sull’assetto istituzionale europeo che sono già nell’agenda dei prossimi anni, per i quali serve innanzitutto un rinnovamento dell’orizzonte in cui conciliare efficacia tecnica e centralità delle persone.

Le prossime elezioni politiche sono dunque un appuntamento decisivo. Il gusto del vento nuovo, che pur tra le difficoltà abbiamo sperimentato, deve farci vincere delusione e scoraggiamento e condurci nuovamente sulle strade della partecipazione. La nostra responsabilità di elettori è sconfiggere i difetti della legge elettorale e far vincere, prima che l’uno o l’altro schieramento, il circuito virtuoso della democrazia.
Ultimo numero
Leggi anche...

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza