La visita di papa Francesco in Cile all’inizio del 2018 e le successive dimissioni dei 34 vescovi del Paese, un fatto senza precedenti, hanno rivelato la crisi profonda vissuta dalla Chiesa del Paese latinoamericano, al punto da perdere la fiducia di cui godeva dopo il ruolo positivo svolto negli anni della dittatura a causa degli scandali sessuali compiuti da alcuni suoi membri. Come si è giunti alla situazione attuale? Quali fattori hanno giocato un ruolo determinante? E quali vie possono essere percorse per realizzare quel profondo processo di trasformazione e conversione della Chiesa a cui invita il Papa?
Nel numero di dicembre di
Aggiornamenti Sociali, il gesuita Eduardo Silva, Rettore dell'Università Alberto Hurtado (Santiago del Cile), ricostruisce le vicende di questi anni e propone alcune riflessioni. Di seguito un passaggio dell'articolo, integralmente disponibile
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La visita del Papa in Cile ha reso più evidente la crisi ecclesiale. Ma dobbiamo analizzare le ragioni che sono all’origine, come la Chiesa cilena è giunta a questo punto. Lo stesso Papa dice che «sarebbe ingiusto attribuire questo processo soltanto agli ultimi avvenimenti vissuti». Non si riferisce solo al fatto che gli abusi risalgono a tempo addietro, ma ai fattori che li favoriscono, così come ad altri eventi e processi che contribuiscono al deterioramento della situazione ecclesiale.
Come è arrivata a questo punto la Chiesa cilena, che era tra le più esemplari e prestigiose in America latina? Presenteremo due risposte. La prima è stata data dallo stesso Papa quando ha condiviso la sua diagnosi con i vescovi cileni all’inizio dell’incontro di Roma, proponendo un’interpretazione della storia recente della Chiesa cilena. La seconda collega la storia locale con quella della Chiesa universale, nel contesto dell’applicazione del Concilio Vaticano II.
Nel primo incontro con i vescovi cileni, il 15 maggio scorso, il Papa ha proposto un testo di meditazione, che ha definito «il “calcio d’inizio” alla riflessione», con il quale li ha inviati a pregare. Questa cruda diagnosi ha segnato gli altri tre incontri, in cui ciascuno dei vescovi ha potuto reagire e dove si è fatta strada l’idea di rimettere il proprio mandato a disposizione del vescovo di Roma. Il verbale di dieci pagine fornisce un’interpretazione della storia recente della Chiesa cilena che aiuta a comprenderne la crisi. Esso oppone in modo dialettico due modi di essere Chiesa, che si rifanno alle parole di Giovanni Battista a Gesù «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Giovanni 3,30). Mentre il primo modo è incentrato su Gesù e il suo Regno, il secondo su se stessi.
Nella prima parte, i riferimenti a testimoni e ad esperienze pastorali di rilievo sono chiari ed espliciti. Si citano due santi cileni: Teresa delle Ande, con il suo sguardo fisso sul Maestro, e Alberto Hurtado, che contemplava Cristo nei poveri. Si ricorda anche la pietà popolare (i pellegrinaggi ai santuari e le devozioni mariane, con la loro dimensione di festa e di gioia), così come la difesa delle popolazioni indigene e dei Mapuche (con la loro ricchezza multiculturale ed etnica). Viene menzionato pure il cardinale Raúl Silva Henríquez (1907-1999), arcivescovo di Santiago, che ha avuto il coraggio di affrontare la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990), di difendere i diritti umani e di schierare la Chiesa a fianco delle vittime della dittatura e dei familiari di quanti erano scomparsi «nella notte più oscura». Il Papa riconosce che «potremmo continuare ancora a enumerare molti fermenti vivi di Chiesa profetica che sa mettere Gesù al centro».
Nella seconda parte, Francesco confronta questi aspetti con una Chiesa che ha perso la sua carica profetica nel momento in cui si è concentrata su di sé. Qualcosa sarebbe successo «in quest’ultimo periodo della storia della Chiesa cilena». È più difficile indicare esplicitamente cattivi esempi, casi concreti di cattiva condotta episcopale, di negligenza e di iniziative pastorali sfortunate. Ad eccezione della menzione degli abusi dolorosi e vergognosi da parte dei ministri della Chiesa, le espressioni, anche quando sono più generali, descrivono uno stile riconoscibile. Il Papa si riferisce all’egocentrismo, alla preoccupazione per se stessi, a un autoritarismo che cerca di «soppiantare la coscienza dei fedeli», al clericalismo, alla «psicologia spiritualità da élite», ai cerchi chiusi, alle spiritualità narcisistiche e autoritarie. Si tratta di una serie di atteggiamenti ecclesiali lontani da quanto proposto da Francesco (essere una “Chiesa in uscita” che va alle periferie, che ascolta il popolo di Dio) nell’Evangelii gaudium, la sua esortazione apostolica programmatica.
La lettera è molto dura, ma il suo stile è ispirato al Vangelo. Il contrasto tra la Chiesa profetica che eravamo e la Chiesa povera che siamo diventati (incentrata su se stessa, senza un rapporto armonico con il popolo di Dio, sulla difensiva) senza dubbio mostra una certa semplificazione. Sappiamo che ci sono stati abusi e dissimulazioni durante gli anni gloriosi della Chiesa profetica. Ma, al di là delle caricature e delle semplificazioni, è giusto e necessario saper distinguere i modi di essere Chiesa che ci avvicinano a Dio da quelli che ci allontanano dai nostri contemporanei, dai poveri, da Gesù e dal suo Regno.