In vista del cruciale appuntamento delle elezioni di Midterm (6 novembre), gli Stati Uniti continuano a dividersi sulla politica e la leadership del presidente Trump. Quali sono i settori della società che gli sono favorevoli? Dove, invece, incontra maggiori resistenze? Quale impatto sta avendo questa presidenza sul Paese e quali prospettive si possono immaginare per il futuro della democrazia statunitense?
In Europa come negli Stati Uniti, il “partito della rassicurazione” pensa che Trump e il trumpismo siano destinati prima o poi – più prima che poi –, a scomparire. Le cause che, singolarmente o combinate, ne segneranno la fine sono il sistema giudiziario, le inchieste sul ruolo della Russia nella campagna elettorale del 2016 o le “patologie sociali” del Presidente (xenofobia, razzismo o idee quanto meno grossolane). Nella peggiore delle ipotesi si ritiene che l’elettorato, in parte arrabbiato, in parte rinsavito e in parte spaventato, si rifiuterà di rieleggerlo nel 2020.
Invece Trump è qui per restare. Ha buone possibilità di essere rieletto: i suoi sostenitori, circa il 40% degli elettori, sono molto leali e non condividono la cultura e la visione politica dei suoi avversari. Neppure è probabile che nel prossimo Congresso ci sia una maggioranza favorevole all’impeachment. D’altronde, anche se Trump venisse cacciato, le profonde divisioni all’interno del Paese garantiranno la continuazione del trumpismo, forse sotto un altro nome e con una retorica un po’ diversa, ma con la stessa sostanza morale e sociale.
I sostenitori di Trump
È strano descrivere il trumpismo come una proposta etica, considerando il comportamento del Presidente e la povertà della sua Amministrazione da questo punto di vista. Tuttavia i suoi sostenitori si considerano difensori di una concezione del Paese oggi minacciata, paladini della verità in lotta contro le falsità di élite egoiste e sprezzanti nei loro confronti. In genere si tratta di persone anziane e bianche, ma ne fanno parte anche numerosi giovani senza istruzione universitaria e donne tradizionaliste, rassegnate all’alcolismo, alle violenze e alle infedeltà dei loro uomini.
Per queste persone, gli articoli e le critiche del New York Times e del Washington Post sono come messaggi cifrati provenienti da uno spazio sociale alieno, dove si respira un’aria diversa. Le folle presenti ai raduni elettorali di Trump o in occasione delle sue visite presidenziali non sono personaggi immaginari di un film di satira sociale, ma persone reali con una vita reale. La loro idea di politica svela alcune verità sul Paese e i suoi traumi che abbiamo archiviato, minimizzato o considerati il residuo di un passato premoderno in via di sparizione: una valutazione comoda e rassicurante, ma del tutto erronea, formulata da intellettuali autoreferenziali, da politici che si rivolgono a un diverso elettorato o da cittadini benestanti che vivono nelle aree urbane.
Il successo di Trump e le sue consistenti possibilità di non essere una meteora non sono dovute solo alla sua capacità di dar voce al partito del risentimento, che incolpa la “new economy” del proprio insuccesso. Ai protestanti evangelici e ai cattolici che desiderano una Chiesa ripiegata su di sé, Trump offre ciò a cui tengono di più: un Governo che prende posizioni dure contro l’aborto, l’omosessualità e il pluralismo culturale in generale. Far finta di nulla di fronte alle incoerenze del Presidente è un piccolo prezzo da pagare per assicurarsi il ritorno al centro della scena politica americana. Del resto, sono abituati ad assumere lo stesso atteggiamento di fronte ai comportamenti che minano l’autorità morale di pastori e preti e favoriscono una pratica religiosa rigida e routinaria.
L’elezione di Trump segue un periodo di ritirata politica e sociale del cattolicesimo e del protestantesimo americani. Dopo le lotte del secolo scorso (diritti civili, diritti della donna, omosessualità, imperialismo, disuguaglianza economica), le Chiese non hanno trovato nuove fonti di energia, ma si limitano a guardare ai trionfi del passato, concentrandosi sulla difesa delle posizioni acquisite sul piano sociale, oltre a fare i conti con le debolezze della natura umana.
Infine, l’ostilità di Trump verso l’islam e l’entusiasmo per la durezza della politica israeliana gli hanno assicurato il sostegno di un terzo degli ebrei statunitensi; gli altri sono contrari alle attuali posizioni israeliane, ritenute foriere di enormi pericoli per il futuro, e si inseriscono nella tradizione della comunità ebraica di sostegno ai movimenti in favore della giustizia sociale negli Stati Uniti.
Quale visione della società?
C’è un radicato credo trascendentale americano che celebra Trump come un profeta: l’onnipresente dottrina della sovranità del mercato, coltivata in centri studi pieni di risorse, diffusa dai media vecchi e nuovi, obbligatoria per chi vuol far carriera in quasi ogni ambiente.
È come se i due Roosevelt, con il progressismo e il New Deal, e poi Kennedy e Johnson, eredi di una concezione positiva del governo e della fede in una continua riforma, appartenessero a un passato remoto, persino mitologico.