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Dai social alle piazze: dopo la sorpresa, quale innovazione?

Le piazze “spontanee” non sono più una sorpresa ma non per questo sono meno interessanti: alla luce di un decennio di esperienze, l’A. offre una griglia per valutare la loro innovatività politica e la qualità dei processi di partecipazione che esse suscitano. Un valido aiuto per orientarsi nelle loro differenze e scegliere come impegnarsi in questi laboratori di formazione politica dell’era digitale.
Fascicolo: febbraio 2020

Negli ultimi mesi è stata la volta dei Fridays for future e del movimento delle sardine; in precedenza c’erano stati i NO TAV e SI TAV (ad esempio le “madamine” torinesi); prima ancora il movimento arancione; e tanti altri ce ne saranno stati, magari di ampiezza locale o di durata più limitata. Fuori dai nostri confini, in Francia stiamo assistendo alla parabola dei gilet gialli e a quella più lunga degli indignados in Spagna. Ma in fondo non erano molto diversi i sostenitori di Beppe Grillo 10 o 12 anni fa, prima della fondazione del Movimento 5 Stelle e della presentazione di liste alle elezioni. Pur nella diversità delle rivendicazioni e delle proteste che di volta in volta li mettono in moto, questi movimenti hanno in comune la capacità di riempire le piazze delle nostre città a partire da convocazioni informali diffuse attraverso il passaparola sui social network, spuntando “come funghi” e cogliendo ogni volta di sorpresa i partiti, le istituzioni, i media, i politologi anche più accreditati e ovviamente l’opinione pubblica. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine: all’inizio suscitano curiosità e anche simpatia, per il carattere popolare e a volte giocoso che li contraddistingue; poi pian piano perdono il gusto della novità, alcuni svaniscono, altri si trasformano, altri ci lasciano perplessi – e magari anche un po’ delusi –, a chiederci se davvero hanno cambiato qualcosa nel panorama della nostra politica. Il fatto che le piazze continuino a riempirsi di gente è infatti un segnale di una dinamica sociale e politica profonda; ma probabilmente indica anche che in questa dinamica c’è ancora qualcosa, o molto, di incompiuto.

Ovviamente non ci sono solo queste piazze “spontanee”. Il nostro mondo ne conosce tante altre, con un diverso profilo, alcune somiglianze ma anche grandi differenze. Da una parte ci sono quelle di tanti Paesi in cui la spontaneità e il carattere popolare delle manifestazioni devono fare i conti con un contesto autocratico e repressivo, per cui la scelta di scendere in piazza può comportare risvolti anche drammatici: è il caso delle primavere arabe, che continuano a riaccendersi come negli ultimi mesi in Libano, di un’America latina in ebollizione (a questo riguardo cfr la Dichiarazione della Rete di centri sociali della Compagnia di Gesù in America latina e Caraibi, alle pp. 164-166 di questo fascicolo), delle proteste in corso a Hong Kong e da ultimo persino in Iran. Dall’altra parte, in Italia, troviamo le piazze della politica pop, in cui con regolarità, secondo copione, il leader convoca i propri sostenitori-tifosi e si mette in scena per rinsaldare il rapporto simbiotico che li lega a vicenda e talvolta li imprigiona. In ragione della loro diversità, l’analisi che qui proporremo non potrà applicarsi a queste piazze se non in modo limitato e analogico.

Alle piazze “spontanee” dedichiamo quindi attenzione nelle prossime pagine: nella loro evoluzione attraversano alcuni snodi cruciali e le opzioni che assumono di fronte ad essi determinano in buona misura il profilo della traiettoria successiva. A partire da tali snodi è possibile costruire una sorta di griglia di lettura dell’evoluzione di questi movimenti di piazza. L’obiettivo è duplice: da una parte, disporre di criteri di valutazione che consentano di andare oltre la “prima impressione” e la sensazione di simpatia o antipatia “a pelle”, anche in vista di un possibile coinvolgimento personale, senza ingenuità romantiche né cinismo disilluso; dall’altra la griglia di lettura aiuta a mettere a fuoco gli elementi di novità di cui ciascuno di questi movimenti è portatore. Nessuno di questi è in grado di offrire una risposta completa alle esigenze di rinnovamento della politica, ma l’intuizione da cui partono identifica delle piste da seguire per scoprire come declinare la democrazia nell’epoca della fine delle ideologie e dell’individualismo di massa. Ne abbiamo troppo bisogno per lasciarcele sfuggire, anche se ci vorrà tempo e un investimento di energie e di creatività perché queste intuizioni portino frutto.

Generare innovazione

La questione della leadership, con le sue diverse sfaccettature, è senz’altro un primo elemento a cui prestare attenzione per valutare i movimenti di piazza. All’inizio le piazze tendono a presentarsi come acefale, convocate via social non si sa bene da chi, ma se la mobilitazione ha successo abbastanza presto si pone l’esigenza di una forma organizzativa più stabile, con uno o più punti di riferimento. Non è facile orientare, precisare obiettivi, costruire qualcosa senza una leadership, per quanto sia oggi diffuso il sogno di un mondo senza capi e gerarchie. Le risposte concrete alla questione della leadership arrivate in questi anni dai movimenti di piazza sono differenziate, in ragione delle peculiarità di ciascuno, ma l’esito delle diverse traiettorie è un elemento da tenere presente per imparare dall’esperienza. In Francia i gilet gialli hanno scelto di rimanere sostanzialmente acefali, anche se questo ha probabilmente inciso sul blocco della loro evoluzione. Altri – come stanno facendo le sardine in queste settimane – si sono strutturati scegliendo i leader nel gruppo originario “della prima ora”, o tra quelli identificati, e talvolta costruiti, dalla narrazione mediatica a loro riguardo. Altri ancora, come ad esempio i Fridays for future, scindono la responsabilità per le questioni organizzative locali dalla figura di un leader o di un gruppo che assume il ruolo di garante dell’ispirazione. Dove la leadership è debole, o divisa al suo interno, è maggiore la fragilità del movimento: è il caso delle “madamine” e per certi versi del movimento arancione. In questo caso una soluzione può essere la confluenza in una struttura già esistente, per lo più un partito, anche se questo cozza con l’eterogeneità delle piazze e con la diffusa allergia verso le forme tradizionali della politica.

Inseparabile dall’identificazione del o dei leader è la questione della loro legittimità e rappresentatività, che può essere affrontata serenamente solo attraverso processi di scelta e organizzativi effettivamente democratici, anche se questo richiede tempo. A riguardo vale la pena studiare il percorso che in Spagna ha condotto dal movimento degli indignados al partito Podemos, così come l’evoluzione progressiva del M5S che, arrivato al Governo, si è trovato di fatto a dover rinunciare al principio prima sbandierato per cui “uno vale uno” e i cui crescenti problemi di tenuta paiono legati anche alla mai affrontata e tanto meno risolta questione della democraticità interna, al di là delle votazioni sulla piattaforma Rousseau. Infine, la strutturazione di una leadership richiede di affrontare anche i rischi di manipolazione dall’esterno. Non mancano mai persone o gruppi che cercano di infiltrarsi in un movimento che pare di successo per prendere le redini, mentre è comune il tentativo di partiti e altre organizzazioni di “corteggiare” i leader del movimento per provare a mettergli in mano la propria bandiera e approfittare del consenso che raccoglie.

Un secondo snodo, altrettanto cruciale, riguarda quella che un tempo si sarebbe chiamata “la base”. Le piazze che stiamo analizzando raccolgono persone molto più eterogenee di quelle che ad esempio rispondono alle convocazioni dei partiti tradizionali, anche se è forse eccessivamente generoso e illusorio definirle “popolo”. Le piazze si trovano così alle prese con un problema cruciale: come integrare le differenze senza schiacciare la varietà nell’uniformità. Si tratta di scoprire – sta qui l’innovazione – che cosa può tenere insieme persone spesso diversissime, costruendo una base comune in cui tutti si possano riconoscere; anzi, mantenendo un’apertura che possa incentivare altri ancora ad aggiungersi. Se schierarsi contro qualcosa o qualcuno, oppure militare per una causa precisa e specifica, in una fase iniziale può facilitare la mobilitazione, a lungo andare questo si rivela insufficiente per la costruzione di un movimento politico che possa ampliare il proprio consenso in maniera significativa. L’articolazione del pluralismo diventa fondamentale per l’elaborazione di una piattaforma in cui trovino una collocazione organica le diverse problematiche che il Paese deve affrontare e soprattutto per l’identificazione di una scala di priorità condivisa. Come farlo nell’epoca post-ideologica richiede creatività, possibilità di sperimentazione e un modo di procedere che pare in maggiore consonanza con la cultura e la forma mentis del mondo giovanile.

I processi di articolazione interna dovranno prima o poi fare i conti con l’emergere della violenza, sia quella verbale (diretta e via social), sia quella effettivamente minacciata e agita. Come abbiamo imparato fin dagli anni delle manifestazioni no global e dei black bloc, le piazze piene sono una potente attrazione per gruppi organizzati che portano avanti la loro agenda con mezzi violenti e possono far “deragliare” movimenti che scelgono altre modalità di azione, erodendo il consenso nell’opinione pubblica. È un punto su cui occorrono consapevolezza e strategia ferrea – le sardine stanno prestando molta attenzione a questo punto –, anche se le armi a disposizione per impedire tali sbandamenti sono spesso spuntate.

Un ultimo snodo, spesso trascurato o ritenuto secondario, va invece affrontato con consapevolezza: la comunicazione, a partire dalla capacità di molti, specialmente giovani, di costruire narrazioni mediaticamente efficaci. Se le reti sociali, tradizionali o a base tecnologica, risultano fondamentali per muovere i primi passi e restano uno strumento essenziale per la comunicazione e la coesione interna, per crescere è necessario uscire dalle proprie cerchie e raggiungere una audience più ampia. Il che resta impossibile senza passare attraverso giornali e TV, come mostra la svolta a U del M5S a riguardo. Si tratta di un passaggio insidioso, perché obbliga a fare i conti con le logiche del sistema mediatico e le sue pressioni: ogni volta che si riempie una piazza, partono la caccia a scoprire chi è il leader, le interviste e gli inviti ai talk-show. È la conseguenza delle dinamiche della politica pop, che si impernia proprio sulla costruzione mediatica della figura del leader, ma che per movimenti che stanno muovendo i primi passi può rivelarsi un cortocircuito, forzando dall’esterno i tempi della selezione della leadership a prescindere dal riconoscimento da parte della base. Resta vero peraltro che la capacità di gestire il rapporto con i media, senza lasciarsene sopraffare, è oggi un requisito fondamentale per ogni aspirante leader. Anche in questo caso la cultura giovanile mostra una consapevolezza elevata dell’importanza della questione della comunicazione, mostrando di aver messo a fuoco in che mondo viviamo. Non a caso, quattro dei sei punti programmatici delle sardine riguardano proprio la comunicazione (canali di comunicazione istituzionali, trasparenza nell’uso dei social media da parte della politica, correttezza dell’informazione dei media tradizionali, bando della violenza verbale): richieste che anche solo pochi anni fa non sarebbe nemmeno stato possibile concepire e che possono apparire marginali rispetto alla gravità della situazione italiana e mondiale, ma che colgono alcuni punti dolenti e identificano alcune strade per un effettivo rinnovamento della politica.

La qualità dei processi

Riconoscere quando e quanto i movimenti di piazza possono essere generativi e aprire percorsi di rinnovamento è certamente importante. L’analisi però può farsi più fine e investire sia il modo in cui i processi di evoluzione si dipanano nel tempo, cioè la loro qualità, sia la direzione che fanno imboccare a coloro che vi prendono parte, in termini di stimolo alla maturazione del desiderio e all’approfondimento dell’impegno.

In un’epoca di frammentazione e in una cultura dominata dall’individualismo, non è scontato che scendere in piazza promuova davvero un legame tra coloro che lo fanno e punti alla costruzione di un soggetto autenticamente collettivo, necessariamente plurale. La politica pop punta a stabilire un legame diretto tra il leader e i suoi sostenitori, raggiunti e interpellati singolarmente attraverso i social: si produce quindi una forma di appartenenza, ma non si punta necessariamente alla costruzione di qualcosa di cui sentirsi corresponsabili. Anzi, si favoriscono (o addirittura si postulano) forme di delega in bianco che concentrano la responsabilità sul capo, deresponsabilizzando invece i sostenitori. La ricchezza dell’esperienza collettiva delle piazze è dunque un elemento di grande importanza per valutare la qualità della loro proposta.

Un secondo elemento, certamente connesso al primo, considera il tipo di protagonismo che viene promosso. Nella sua stessa fisicità, il gesto di scendere in piazza è una dichiarazione pubblica, a prescindere dalla consapevolezza che se ne ha. Chi lo compie si fa vedere e sentire, affermando la propria soggettività e il proprio protagonismo. Una “buona piazza”, per cui vale la pena coltivare una passione, sarà capace di prendere sul serio questo protagonismo, offrendo percorsi di crescita nella soggettività e nella responsabilità. Questi saranno necessariamente differenziati, via via che ciascuno scoprirà per quale ruolo si sente tagliato o gli è possibile assumere: far parte della leadership, occuparsi dell’organizzazione, portare avanti con coerenza un impegno limitato di sensibilizzazione e sostegno, ecc. Ciascuno di questi ruoli è portatore di senso, a condizione di essere riconosciuto nella sua autenticità. Una piazza “corale e polifonica”, in cui è possibile per tutti trovare spazio e dare un contributo a partire dalla propria originalità e singolarità, rappresenta l’intuizione e la promessa di un progetto di società inclusiva e integrante, senza essere totalizzante. E offre quindi opportunità di esperienze umanamente e socialmente arricchenti. Non sappiamo che esito avranno i Fridays for future o le sardine, ma nella misura in cui consentono percorsi di questo genere hanno comunque significato e valore per il rinnovamento della politica e della società.

Un terzo indicatore di qualità considera le opportunità di approfondimento e di maturazione delle motivazioni di chi scende in piazza. Sicuramente sono tante: dalla rabbia all’indignazione alla frustrazione, dalla paura di perdere qualcosa alla rivendicazione di un diritto, dalla decisione di dire “No” a qualcosa di intollerabile al sogno di inseguire un’alternativa. A qualcuno potrà capitare persino di andare in piazza perché va di moda. Non ha senso fare i difficili, o pretendere una piena purezza delle motivazioni: con realismo possiamo riconoscere che sono sempre miste, ma con la medesima maturità dobbiamo evitare che restino confuse o inconsapevoli. Altrettanto varie sono le occasioni che scatenano i movimenti di piazza: dalla reazione contro una riforma controversa (il caso dei gilet gialli in Francia), al rivendicare diritti negati o violati, dal sottolineare una emergenza trascurata (i cambiamenti climatici per i Fridays for future) al proclamare valori e orientamenti di fondo che si ritengono calpestati. In comune c’è comunque la critica o la sfida a chi è al potere o comunque in posizione economicamente e culturalmente dominante, e la denuncia dei danni e delle minacce di un sistema corrotto.

All’interno di una cultura individualista, il rischio è che ciascuno finisca per rimanere prigioniero delle questioni che più gli stanno a cuore o lo preoccupano, della causa che si è scelto come bandiera, producendo così la frammentazione delle piazze. Un processo sano e costruttivo saprà chiedere a ciascuno la disponibilità a decentrarsi e a mettere in prospettiva la propria causa e la propria posizione, aprendo così uno spazio di riconoscimento per chi ha più bisogno o più diritto e consentendo l’emergere di una scala di priorità condivisa in cui nessuno resta prigioniero dell’assolutizzazione di “ciò che voglio per me”. È questa la strada per ricostruire il legame sociale e risanare le relazioni, anche quelle ferite da una politica che fa della rabbia e dell’odio la base del consenso: la vera alternativa all’hate speech non è una piazza giocosa che semina divisione inviando baci, ma quella che si muove nella direzione della capacità di decentramento, che rappresenta una forma di gratuità e una contestazione radicale dell’assolutizzazione degli interessi individuali o di gruppo.

Incubatori di soggettività politica

Le piazze piene ci parlano di una società attraversata da passioni. Questa è senz’altro una buona notizia, anche se al momento manca una completa articolazione politica di queste passioni. Ma alcuni elementi cominciano ad apparire, specie se prendiamo il tempo di rileggere quanto è accaduto in casi diversi e su un arco temporale medio-lungo. È il tentativo fatto da questo editoriale. Lasciamo quindi che le piazze ci interpellino, senza soffocare lo stupore con il cinismo e senza sottovalutare il desiderio di partecipazione alla costruzione del bene comune di cui sono portatrici, anche se in modo a volte confuso e parziale. Anzi, senza opporre troppa resistenza quando ci sentiamo animati a metterci in gioco personalmente.

Non è possibile sapere a priori se questi movimenti raggiungeranno risultati duraturi e condurranno a elaborare risposte definitive. E forse non è neppure la domanda più importante. Come impariamo dalla storia dell’ultimo decennio, seguiranno l’itinerario che sapranno aprirsi e, con tutta probabilità, altri ne verranno. Ma questo non ne sminuisce l’importanza e il valore, specie se impariamo a guardarli con maturità e consapevolezza dei limiti – di chi è guardato e di chi guarda –, riconoscendovi degli incubatori di innovazione politica e delle palestre per il desiderio di partecipazione e protagonismo, che nulla autorizza a ritenere sopito. Tra XIX e XX secolo, la politica dei partiti di massa a base ideologica ha richiesto decenni di sperimentazione per mettere a punto le proprie strutture, le proprie procedure, il proprio lessico: perché non dovrebbe accadere lo stesso nel tempo della politica post-ideologica e dei social media? Al limite, si pone un interrogativo sulla disponibilità di competenze per accompagnare la sperimentazione e di luoghi per rileggere le esperienze, altrimenti sarà grande il rischio di dover ricominciare ogni volta da capo.

Questo vale per i processi collettivi e anche per le traiettorie individuali iscritte al loro interno. Rispetto al secolo scorso, anche queste risulteranno più diversificate e plurali: alcuni scopriranno nella piazza e nelle dinamiche a cui essa dà avvio una vera vocazione; altri si lasceranno appena toccare e si ritufferanno in qualche altro mondo: dalla famiglia ai problemi personali, dalla professione all’impegno prepolitico, civile o magari ecclesiale, al trastullamento nelle seduzioni della società dei consumi. Queste piazze però ci ricordano qualcosa che era probabilmente chiaro fino a qualche decennio fa, ma che poi abbiamo dato per scontato o smarrito per strada: la soggettività politica, che per i cittadini è un diritto ma anche un dovere, non si acquisisce una volta per tutte, perché è un processo dinamico in cui coinvolgersi, impegnarsi e crescere.

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