Creditore e debitore

Fascicolo: gennaio 2015
In vista del Giubileo del 2000 Giovanni Paolo II esortò i cristiani a «farsi voce di tutti i poveri del mondo» e a «pensare, tra l’altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni» (GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, 1994, n. 51).

Il pensiero del Papa era rivolto ai Paesi poveri altamente indebitati, in particolare quelli africani: le sue parole ispirarono un’ampia serie di iniziative, all’interno della Chiesa e non solo, culminate in una campagna globale in occasione del Giubileo. Per quanto riguarda l’Italia, fu approvata la Legge 25 luglio 2000, n. 209, Misure per la riduzione del debito estero dei Paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati, mentre con le offerte raccolte la CEI avviò una serie di programmi di conversione del debito in progetti di sviluppo locale in Guinea e Zambia.

Dopo poco più di un decennio, il problema resta acuto per i Paesi poveri, mentre la crisi finanziaria ed economica ha prodotto una sorta di globalizzazione della questione, sia rispetto alla sostenibilità del debito pubblico, sia rispetto all’aumento dei casi di insolvenza di famiglie e imprese. Anzi, proprio l’impossibilità di onorare i debiti contratti da parte di molti che negli USA avevano sottoscritto i famigerati mutui subprime è stata la scintilla che, tra il 2007 e il 2008, ha fatto scoppiare la crisi.

Pur nella varietà delle forme, il debito è una costante nella storia dell’umanità e anche la Bibbia affronta a più riprese la questione, a partire da un nucleo teologico e antropologico fondamentale: ogni uomo è debitore nei confronti di Dio, al di là delle circostanze contingenti della sua vita. Da questa comune condizione umana, riletta nella fede alla luce dell’esperienza storica d’Israele, derivano una serie di norme per regolare secondo giustizia il rapporto fra creditore e debitore.

Il debito tra schiavitù e liberazione

Nel mondo antico, chi aveva contratto un debito e non era più in grado di rifonderlo diventava schiavo del creditore e doveva risarcirlo con il lavoro servile o con il prezzo della sua vendita sul mercato. La stessa sorte toccava alla moglie e ai figli del debitore. Anche Israele recepisce questa norma universale, ma, come vedremo, la rivisita mitigandola (cfr Esodo 21,4 e Levitico 25,44-46).

Allora come oggi, chi concedeva un prestito esercitava un potere e non mancavano abusi e ingiustizie. In un sistema economico basato su agricoltura, pastorizia e artigianato i rovesci dovuti a carestie o guerre obbligavano gran parte della popolazione a indebitarsi, esponendola così al rischio di insolvenza e schiavitù.

I sovrani più illuminati emanavano editti di condono, sia per ovviare ai soprusi, sia per ridare slancio all’economia, depressa dall’accumulo della ricchezza in mano di pochi, e anche per evitare che questi divenissero temibili concorrenti per il potere. Uno dei più antichi atti di remissione del debito noti è quello di Urukagina, re sumero di Lagash, in Mesopotamia, risalente al 2370 a.C. Per ordine del dio Nigirsu, il re proclamò un’amnistia, liberando quanti risultavano insolventi o avevano commesso reati a causa dei propri debiti. Provvedimenti simili erano adottati dai sovrani anche di altri popoli antichi, di solito in occasione della loro ascesa al trono o per celebrare avvenimenti lieti, come una vittoria militare.

Israele recepisce questa prassi e la specializza. La principale differenza nella legislazione biblica consiste nella cadenza regolare del condono: Alla fine di ogni sette anni farai una remissione. Questa è la norma della remissione: ogni padrone condonerà il prestito di cui è creditore verso il suo prossimo. Non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, perché è stata proclamata la remissione per il Signore. Potrai esigerlo dallo straniero; ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere (Deuteronomio 15,1-3).

Invece di affidarsi alla magnanimità del governante di turno, gli ambienti sacerdotali da cui provengono leggi come questa richiedono di praticare il condono ogni sette anni, un evidente riferimento ai sette giorni della creazione e al sabato, il settimo giorno in cui Dio si ferma a contemplare la bontà di quanto ha creato. Come per il re sumero Urukagina, anche per Israele la remissione dei debiti non può fondarsi esclusivamente sulla buona volontà umana, ma è sancita come legge stabilita da Dio, ed è, quindi, un atto di culto da parte dell’uomo. Per gli ebrei, in particolare, ha il senso di ripristinare l’armonia del mondo e delle relazioni umane nella loro bellezza e giustizia originarie.

Il condono non è universale: nell’epoca in cui fu scritto questo testo, per prossimo o fratello s’intende solo chi appartiene al popolo eletto, mentre per lo straniero vige una legge diversa; anche questa disparità di trattamento è un dato comune di tutto il mondo antico. Passeranno circa sette secoli prima che Gesù estenda il concetto di prossimo anche allo straniero e al nemico (cfr la parabola del buon samaritano, Luca 10,2537).

Il condono periodico implicava la liberazione degli schiavi: se, per insolvenza, un ebreo o un’ebrea si erano dovuti vendere a qualcuno, la remissione comportava il riacquisto della libertà.

Deuteronomio 15,12-17

12 Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo manderai via da te libero. 13 Quando lo lascerai andare via libero, non lo rimanderai a mani vuote; 14 gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio; gli darai ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto; 15 ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comando. 16 Ma se egli ti dice: «Non voglio andarmene da te», perché ama te e la tua casa e sta bene presso di te, 17 allora prenderai un punteruolo, gli forerai l’orecchio contro la porta ed egli ti sarà schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava.


La logica della legge è chiara: chi non è in grado di onorare i propri debiti deve risarcire il creditore con il suo lavoro, ma non può restarne prigioniero per sempre. Dopo un certo tempo deve essere ristabilito nella condizione di persona libera e indipendente, com’era prima, a meno che scelga liberamente di perpetuare la propria condizione di schiavo, avendo stabilito con il padrone un rapporto basato sull’affetto, il rispetto e la fiducia reciproci. Questo evidentemente accadeva, all’interno di una cultura che, a differenza della nostra, riteneva ammissibile la schiavitù.

Il testo integra il precedente riferimento alla creazione con quello all’uscita dalla condizione servile subita da Israele in Egitto. Il condono del debito e la liberazione degli schiavi connettono in un unico gesto creazione e redenzione: l’uomo va mantenuto libero da ogni potere che ne leda la dignità tendendo a impoverirlo o ad asservirlo, sia esso naturale (ad es. la carestia) e/o culturale (ad es. la schiavitù). È questo il vero modo di onorare il Dio dei padri, che ha voluto l’umano signore di tutte le creature (cfr Genesi 1,28). Da questo deriva anche il parallelo fra debito e peccato in quanto condizioni di non libertà dell’uomo, a cui rimedia il perdono, di Dio e degli uomini: i due termini ebraici indicanti la remissione (shemittà e deror), sono resi nella versione greca della Bibbia con áfesis, parola che, come quella italiana, indica sia l’annullamento del debito, sia il perdono dei peccati (cfr il Padre nostro, Matteo 6,12).

Una legge utopica?

Ma una legge di questo genere veniva applicata? Non tutelava troppo il debitore, limitando i diritti del creditore? Quando si avvicinava il settimo anno chi avrebbe concesso un prestito consistente a quanti ben volentieri l’avrebbero risarcito con un breve periodo di servitù? In effetti non c’è evidenza dell’applicazione di tali norme.

Nel libro del profeta Geremia si parla di un’alleanza fra il re di Giuda Sedecia (597-587 a.C.) e gli abitanti di Gerusalemme per rimandare liberi gli schiavi ebrei. Al primo momento di entusiasmo subentrò il pentimento degli aderenti all’accordo e i servi furono ripristinati nel loro stato dopo aver goduto solo per poco tempo di un’effettiva libertà. A questa trasgressione della legge Geremia attribuisce l’imminente abbandono, da parte di Dio, del re e di Gerusalemme nelle mani dei Babilonesi (cfr Geremia 34,1-22).

Dopo l’esilio la legislazione del Deuteronomio relativa al condono dei debiti venne rielaborata. Il cap. 25 del libro del Levitico – anch’esso redatto negli ambienti sacerdotali – interviene per prolungare la cadenza della remissione, introducendo la celebrazione del giubileo ogni cinquant’anni, con una procedura per il resto simile a quella dell’anno sabbatico. L’esortazione di Giovanni Paolo II si riferiva proprio a questo testo: se, da una parte, viene ridotta la frequenza del condono, dall’altra si sottolinea il comando di rendere meno onerosa la condizione degli schiavi.

Levitico 25,35-43

35 Se il tuo fratello cade in miseria ed è inadempiente verso di te, sostienilo, come un forestiero e un inquilino, perché possa vivere presso di te. 36 Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. 37 Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai i tuoi viveri per ricavarne profitto. 38 Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio. 39 Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; 40 sia presso di te come un bracciante, come un inquilino. Ti servirà fino all’anno del giubileo; 41 allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri. 42 Poiché essi sono miei servi, che io ho fatto uscire dal paese d’Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi. 43 Non lo tratterai con asprezza, ma temerai il tuo Dio.


Nel solco tracciato dal Deuteronomio, il Levitico fa un passo più deciso verso l’abolizione della servitù: il debitore insolvente deve diventare come un bracciante, un lavoratore a giornata, o come uno di quegli stranieri che soggiornavano per un certo tempo presso gli ebrei e lavoravano per loro, accolti e trattati da ospiti, inquilini (Abramo lo era stato presso gli ittiti in Canaan, cfr Genesi 23,4).

Il criterio di fondo della legge resta lo stesso: chi cade in miseria ed è inadempiente deve poter vivere dignitosamente. La legge stabilisce un principio di corresponsabilità, per cui il creditore non può esigere il risarcimento spogliando il debitore di tutti i suoi beni e abbandonandolo al suo destino, ma deve usare le sue sostanze per offrirgli la possibilità di rifondere il debito, rispettandolo nella sua dignità inalienabile di persona e lavoratore: fa’ vivere il tuo fratello presso di te. Nessuno, in Israele, dovrà essere trattato con asprezza, perek in ebraico, un termine raro nella Bibbia, che richiama Esodo 1,13 per ricordare la durezza e la crudeltà con cui gli egiziani facevano lavorare gli schiavi ebrei.

Le leggi del Levitico non vogliono essere solo correttive, ma anche preventive: non si devono creare le condizioni per rendere inadempienti i debitori con prestiti troppo onerosi, da usura, anzi, bisogna prestare senza interessi! Anche questa può sembrare una norma utopica, ma nel loro realismo gli autori biblici sanno che ne beneficeranno tutti: il risarcimento del debito mediante il lavoro conviene anche al creditore, perché un mercenario ti sarebbe costato il doppio (cfr Deuteronomio 15,18).

Anche se limitatamente al fratello ebreo, Israele ha un’idea di società fondata sulla solidarietà, necessaria a consolidare il senso di appartenenza a un’unica comunità, molto più efficace della nostra, basata sulla competizione: a che serve divenire sempre più ricchi impoverendo il prossimo, se questo rende tutti più vulnerabili, invece di liberarci e migliorare la qualità della nostra vita?

Considerazioni (in)attuali

Nonostante l’allungamento dei tempi, anche per il Levitico «non c’è nessun indizio che la legge sia stata applicata» (cfr DE VAUX R., Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, pp. 182-184). È sempre al limite dell’utopia chiedere di agire in modo gratuito, rinunciando ai propri interessi per il bene di tutti, a chi vanta un credito nei confronti del mondo e degli altri e non si sente in debito (cfr la parabola del servo spietato, Matteo 18,23-35).

Ma dopo quanto è successo con la crisi finanziaria, seguita da quella economica, non è tempo di ripensare al modo in cui gestiamo la relazione fra creditore e debitore, tanto a livello locale, quanto a livello globale? La prassi consolidata che conosciamo mostra infatti tutti i suoi limiti, sia per le tragedie personali, familiari e nazionali causate agli insolventi, sia per gli effetti depressivi sull’economia provocati dalle crisi del debito.

La sfida è quella di ridare valore al prestito come relazione e dunque – per parafrasare le espressioni di papa Francesco – di mettere al suo centro la persona, non il denaro prestato. Entrare in qualunque rapporto, prestito incluso, significa assumersene la responsabilità, nei confronti del partner e della società al cui interno una relazione strutturata e istituzionalizzata si svolge. Nel caso del creditore questo vuol dire fare tutto ciò che gli è possibile per mettere il debitore in condizione di restituire il suo debito, rinunciando a farne uno strumento di controllo e di riduzione in schiavitù pur di conseguire a ogni costo il proprio profitto. Questo almeno è il senso delle prescrizioni bibliche in materia.

Il tradizionale apparato di strumenti messi in campo per la concessione di un prestito (valutazione del progetto di investimento, disponibilità di garanzie reali e personali) era probabilmente in origine un modo per esercitare questa responsabilità e proteggere sia il creditore sia il debitore dall’evento traumatico dell’insolvenza, cioè del fallimento della loro relazione. Oggi questo sistema ha perso efficacia e il debitore, anziché protetto, quando non può risarcire il creditore viene precipitato in una spirale perversa in cui interessi, penali e commissioni continuano a far lievitare il suo debito e i profitti dell’industria del recupero crediti. Il legislatore e i vari agenti del credito sono chiamati a uno sforzo di innovazione, per trovare nuovi strumenti di protezione del bene relazionale del prestito e del clima di fiducia e collaborazione che costituisce un tassello fondamentale di quel capitale sociale di cui anche l’economia e il mercato hanno bisogno per poter funzionare. Camminando sul filo del principio di corresponsabilità fra creditore e debitore, in equilibrio fra realismo e utopia, la legislazione biblica ci offre un criterio per superare una delle più gravi impasse dei nostri tempi.

Ultimo numero
Leggi anche...

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza