COP28: una lenta transizione

Intervista da Dubai a Francesca Casale, di Italian Climate Network

Foto credits: UNclimatechange

La COP si è aperta con l’attuazione del fondo di riparazione per le perdite e i danni (loss and damage) subiti dai Paesi più vulnerabili e con l’annuncio degli stanziamenti dedicati da parte di diversi Paesi, tra i quali l’Italia. È una risposta sufficiente? Come verrà gestito?

La decisione di istituire il risale alla COP27 del 2022. Ma già allora c’era qualche scetticismo da parte dei Paesi sviluppati, per la difficoltà di quantificare l’entità di perdite e danni, di identificare gli eventi che ricadono nell’ambito dei danni climatici e i Paesi destinatari. La bozza di testo, preparata dalla commissione apposita, che è arrivata a Dubai non piaceva a nessuno, ma lo sforzo diplomatico della presidenza degli Emirati Arabi Uniti si è concentrato sull’apertura della Conferenza con la sua approvazione. È una mossa politica, funzionale alla narrazione emiratina di una “COP di svolta”. Il testo che è stato approvato non soddisfa i Paesi in via di sviluppo, perché non contiene riferimenti né alle “responsabilità comuni ma differenziate”, che è alla base dell’Accordo di Parigi, né ai diritti umani e alle fasce più vulnerabili (donne, giovani, indigeni). Soprattutto, non piace che il fondo sia gestito dalla Banca mondiale: è risaputo che i progetti gestiti da questa istituzione non sempre sono trasparenti e non sempre raggiungono i destinatari. Non è chiaro, inoltre, chi deve contribuire, quanti soldi servono e a chi devono andare. L’Italia è stata tra i Paesi più generosi, offrendo 100 milioni di euro; in totale è stato stanziato circa mezzo miliardo di euro. Ma questa cifra è modesta, se la confrontiamo con l’obiettivo, deciso da anni e mai raggiunto, di stanziare cento miliardi di dollari all’anno per i progetti di mitigazione e adattamento dei Paesi in via di sviluppo. Infine, si tratta di contributi volontari, senza vincoli per i Paesi donatori. Tutto è molto vago.

 

Si è parlato molto di “giusta transizione”, cioè di una transizione che persegua gli obiettivi dell’accordo di Parigi, con criteri di equità tra gli Stati. In che modo la COP sta affrontando il tema?

Un aspetto della questione è la finanza climatica e, su questo fronte, non ci sono stati grandi progressi. L’obiettivo dei cento miliardi, che ricordavo prima, deve essere aggiornato, ma per ora non si parla di cifre. Esiste dalla COP16 una commissione incaricata di monitorare i flussi finanziari, che nel 2023 ha pubblicato un rapporto: ne emerge che la finanza climatica non è trasparente, non sappiamo quanti investimenti vengono fatti, da quali Paesi arrivano e dove sono destinati, e se rispettano gli obiettivi; la rendicontazione è vaga e ogni Paese usa criteri propri. Scarseggiano gli investimenti per l’adattamento, che è fondamentale per proteggere i territori più esposti ai cambiamenti climatici. I Paesi in via di sviluppo dicono: «Voi Paesi industrializzati vi siete arricchiti inquinando, ora chiedete a noi di rinunciare al nostro sviluppo basato su fonti fossili; allora dovete darci gli strumenti finanziari per accedere alla transizione energetica». Qui però le opzioni divergono: i Paesi industrializzati puntano sulla finanza privata per la transizione, quelli più poveri denunciano i tassi di interesse troppo elevati della finanza privata e chiedono investimenti pubblici. Più in generale, il concetto di transizione giusta è sotteso a tutti i negoziati. Dal punto di vista della mitigazione, cioè della riduzione dei gas serra, prevede che si cerchino alternative al mercato dei combustibili fossili, soprattutto per i Paesi che li esportano. Sul piano dell’adattamento ai cambiamenti climatici, implica il dovere, per i Paesi industrializzati, di sostenere quelli che ne subiscono maggiormente le conseguenze.

 

Dai primi giorni è emerso il tema dei sistemi alimentari, con l’adozione di una dichiarazione firmata da 134 Paesi. Perché i sistemi alimentari riguardano le politiche climatiche? Che cosa comporta questa dichiarazione?

È un tema climatico perché l’agricoltura e l’allevamento incidono in modo significativo sulle emissioni di gas serra. Inoltre, è un tema caro al Sud globale perché riguarda la sicurezza alimentare. La convenzione siglata a Dubai è un punto di svolta: chiede di introdurre in tutte le politiche climatiche gli obiettivi per mitigare gli effetti serra del settore agro-zootecnico e per rendere i sistemi alimentari più resilienti ai cambiamenti climatici.

 

Circa 50 compagnie petrolifere e del gas, tra le quali l’ENI, hanno firmato la Oil and gas decarbonization charter, su iniziativa dell’Arabia Saudita e degli Emirati. Che cosa comporta? Quale ruolo le compagnie del settore possono realisticamente svolgere nella decarbonizzazione?

Questa dichiarazione prende atto che una transizione è necessaria e che questa potrebbe rappresentare un’opportunità anche per le compagnie petrolifere, anche alla luce del fatto che è inevitabile, si sta già facendo, e questo comporta una perdita di introiti per i produttori di combustibili fossili. Molte imprese energetiche stanno investendo nella ricerca sulle rinnovabili, proprio per ragioni di mercato. Sul piano pratico, gli effetti di questa dichiarazione delle compagnie petrolifere saranno limitati: si sono impegnati ad azzerare le emissioni nette relative alle procedure di estrazione, che è un primissimo passo, ma il grosso delle emissioni dipende dalla vendita e dal consumo di combustibili fossili.

 

La società civile riesce a dare un proprio contributo alla COP28?

Rispetto alle COP precedenti, la presenza effettiva della società civile è inesistente. Si è data ampia risonanza al grande numero di persone accreditate, circa centomila, ma è una presenza di facciata, perché è relegata alla parte fieristica della Conferenza. Lo si vede già dalla distribuzione degli spazi: la parte dei padiglioni dove si fanno conferenze è enorme, mentre lo spazio dei negoziati è in una palazzina alla quale pochi possono accedere. A motivo della poca disponibilità di spazio, gli osservatori vengono esclusi e, così, alla società civile viene impedito di monitorare i negoziati e di contribuire alla stesura dei documenti. I gruppi più numerosi sono quelli degli Emirati, del Brasile e della Cina. Ci sono molte ONG che rappresentano il Sud del mondo. Quest’anno c’è anche una presenza maggiore delle imprese. Questa varietà, di per sé è positiva.

11 dicembre 2023
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