Abbiamo tutti negli occhi le immagini della violenza operata dai sostenitori del presidente statunitense Donald Trump, con l’inevitabile lista di vittime. Sono state indubbiamente uno choc, soprattutto dal punto di vista simbolico, ma non una sorpresa: costituiscono un esito coerente non solo con il comportamento tenuto dal Presidente uscente a partire dalla sconfitta alle elezioni dello scorso 3 novembre, pervicacemente negata contro ogni evidenza, ma con la sua intera parabola politica. Nel 2016 era stata proprio la campagna elettorale di Trump, insieme a quella sostanzialmente contemporanea del referendum sulla Brexit, a portare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della rilevanza politica delle fake news e alla proclamazione del neologismo post-truth – in italiano “post-verità” – come “Parola dell’anno 2016” da parte di Oxford Dictionaries. Durante i quattro anni del suo mandato, Trump non ha certo cambiato stile nella gestione dell’informazione: se servono esempi, basta pensare ai suoi tweet negazionisti a proposito dei cambiamenti climatici o della pandemia. Ora gli Stati Uniti si trovano a fare i conti con la sua eredità di manipolazione e polarizzazione che ha letteralmente spaccato il Paese.
Si tratta di un fenomeno che Trump ha cavalcato con grande abilità e spregiudicatezza, ma le cui proporzioni superano i confini americani.
Le fake news sono spesso paragonate a un virus: come abbiamo imparato dal SARS-CoV-2, i virus si diffondono e contagiano ben prima che riusciamo a diagnosticarli. Se riflettiamo sulla diffusione anche in Italia di narrazioni negazioniste proprio relative alla pandemia, o di fake news a proposito dei vaccini, e soprattutto degli evidenti tentativi di strumentalizzazione politica, ci rendiamo conto di trovarci più o meno sulla stessa barca. Anche in vista della prossima campagna elettorale, vicina o remota che sia, vale la pena interrogarsi su queste dinamiche, e soprattutto sulle speranze di immunizzare la nostra democrazia dai pericoli che comportano.
Lo sfondo invisibile della post-verità
Un rapido sguardo all’evoluzione della situazione negli ultimi quattro anni ci aiuta a mettere meglio a fuoco le coordinate del problema. All’inizio i termini fake news e post-verità viaggiavano appaiati, usati sostanzialmente come sinonimi; poi, con il passare del tempo, fake news è diventato di uso assai comune, spesso anche come strumento polemico per denigrare o delegittimare le posizioni con cui non si è d’accordo. Post-verità, invece, è quasi scomparso, o al limite si è ritagliato una nicchia come termine tecnico per studiosi di fenomeni culturali o della comunicazione. Nel frattempo altre parole sono diventate o tornate di moda, come teorie del complotto o complottismo, e soprattutto negazionismo, il cui uso non si limita più solo alla negazione dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Ad esempio, in questi ultimi mesi è stato applicato alla posizione di coloro che rifiutano di credere che sia in corso una pandemia.
Come sempre, l’evoluzione del linguaggio è un indicatore molto sensibile. La chiave di comprensione del fenomeno resta la post-verità, che proprio quattro anni fa definivamo come «una situazione in cui i dati di fatto non sembrano avere molta presa nella comunicazione (politica e non solo), né costituire un criterio di riferimento» (Costa G., «Orientarsi nell’era della post-verità», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2017] 93-100). In questo senso, le fake news non sono una menzogna creduta vera per inganno, o grazie alla fabbricazione di prove false – fenomeni che la storia della politica conosce da millenni –, ma qualcosa di creduto a prescindere e persino a dispetto di qualsiasi verifica, per cui risulta inutile continuare a smentirlo fornendo prove. Il caso esemplare sono i millantati brogli delle ultime elezioni statunitensi: nonostante tutti i ricorsi siano stati respinti per mancanza di prove, una parte consistente della popolazione continua a credere alla loro realtà. Anzi, proprio il fatto che tanti vi credano viene invocato come motivo della loro credibilità o almeno plausibilità, con una significativa inversione logica: poiché molti lo credono, deve per forza essere credibile.
Lo sbarco di questa logica in ambito politico e ancor più istituzionale, come è accaduto con la presidenza Trump, è un ulteriore campanello di allarme sui rischi che minacciano la democrazia, poiché, come già ammoniva Hannah Arendt al termine della Seconda guerra mondiale, «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più» (Le origini del totalitarismo, Edizioni di comunità, Milano 1967, ed. or. 1951).
Il muro di gomma delle fake news
L’emergere delle tendenze che identifichiamo come complottismo o negazionismo aggiunge un tassello importante: nel quadro della post-verità, le fake news, o almeno quelle che hanno successo tra le molte sempre in circolazione, tendono ad aggregarsi in concrezioni sempre più articolate e complesse. Questo ne rafforza considerevolmente la pretesa di plausibilità, rendendole ancora più infalsificabili: qualunque dato o fatto che le smentisca potrà infatti essere ricondotto alle trame di non meglio identificati “poteri forti” o di qualche deep State. È la forma, integrata – come vedremo – con le tecnologie digitali dei new media, con cui nel nostro tempo prendono corpo le teorie del complotto e le narrazioni negazioniste, che storicamente non rappresentano certo una novità. È proprio il fatto di essere narrazioni a renderle così potenti e attraenti: per le comunità che le accettano e vi si riconoscono, diventano la risposta all’esigenza profondamente umana di organizzare il caos e rintracciare un senso al suo interno. Questo rende ragione dell’attaccamento di coloro che vi aderiscono, altrimenti inspiegabile, portato avanti persino quando, attaccati a un respiratore in un reparto di terapia intensiva, continuano a negare l’esistenza della pandemia.
Torniamo così a incontrare, anche se in una forma per certi versi patologica, la potenza e l’importanza delle narrazioni per gli individui e i gruppi umani. Come spiega il filosofo e pedagogista Pier Cesare Rivoltella (cfr «Narrazione», in La comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, <www.lacomunicazione.it>), dal punto di vista antropologico la narrazione è una necessità quasi biologica. Raccontare significa esprimere l’appartenenza a un gruppo e sentirsi inseriti in una tradizione che grazie al racconto viene ereditata dalle generazioni precedenti e trasmessa a quelle future, garantendo alla comunità di perpetuarsi. Ma il bisogno di narrazioni incarna anche un desiderio di riconoscimento: raccontare significa prendere coscienza di sé e della realtà circostante, sperimentare di sentirsi vivo e protagonista della propria vita. Infine la narrazione risponde a un bisogno di orientamento: raccontare significa elaborare rappresentazioni del mondo e chiavi di lettura accessibili a tutti.
Le teorie del complotto, così come in generale le narrazioni “alternative”, emergono quando gruppi sufficientemente numerosi non riescono a sentirsi rappresentati dalle narrazioni “ufficiali” e cercano quindi di costruirsi una storia in cui potersi affermare come attori. Da questo punto di vista è illuminante affrontarle con gli strumenti dell’analisi delle culture degli esclusi e degli oppressi, con cui hanno molto in comune a dispetto dell’esibizione muscolare di simboli di potenza a cui abbiamo assistito. Non è certo un mistero che lo “zoccolo duro” dell’elettorato trumpiano, cioè coloro che sono disposti a credere ciecamente a tutte le fake news diffuse dall’ex Presidente degli Stati Uniti, sia costituito da membri di gruppi sociali che si sentono perdenti o esclusi dalle narrazioni che si sono imposte come vincenti a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, cioè dalla fine delle ideologie: la narrazione della globalizzazione come nuovo Eldorado, quella del progresso fondato su automazione e intelligenza artificiale e quella del politically correct per quanto riguarda le questioni razziali e di genere. L’immaginario della “vittoria rubata” dalle trame oscure del deep State esercita su questi gruppi un fascino probabilmente irresistibile.
Ambiguità e manipolazioni
L’esame delle recenti vicende statunitensi svela però anche un elemento di radicale debolezza di queste narrazioni alternative. Teorie del complotto e cospirazioniste abitualmente si fondano sulla contrapposizione tra popolo ed élite, considerate come irrimediabilmente corrotte e prive di scrupoli nell’usare la menzogna per difendere i propri privilegi a danno del popolo. È un dato evidente anche nell’immaginario e nel lessico dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, presentato come una sorta di riappropriazione dei luoghi simbolici della democrazia da parte di chi se ne sente espropriato.
Tuttavia, per storia personale così come per censo, Donald Trump appartiene certamente più all’élite che al popolo e la facilità con cui ha saputo cogliere e alimentare le teorie complottiste già in circolazione in alcuni segmenti della società americana per farne strumento di creazione di consenso la dice lunga sulla fragilità politica dei gruppi che in quelle narrazioni si riconoscono. Si presentano come critiche radicali a un sistema che però con grande facilità riesce a strumentalizzarle a proprio vantaggio. Come ha affermato nel 2018 lo scrittore Wu Ming 1, «Per usare una metafora da elettricisti, il complottismo è la “messa a terra” del capitalismo: disperde in basso le energie e impedisce che le persone siano “folgorate” dalla consapevolezza che il sistema non funziona» («Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte», in Internazionale, 29 ottobre 2018).
Anche il rapporto tra new media e gruppi complottisti è altrettanto ambiguo. I social media sono la cassa di risonanza con cui si alimentano e si reclutano nuovi “adepti”, non solo perché rendono accessibili a costo molto limitato le loro narrazioni, ma perché gli algoritmi dei motori di ricerca e dei social media sono costruiti per avvicinare persone con visioni simili e soprattutto per mantenerle all’interno di circuiti chiusi, isolandole dalla realtà. Il repentino cambiamento dell’orientamento di alcuni dei principali social network verso una moderazione più assertiva e il blocco alla diffusione di contenuti violenti, al cui interno si colloca la chiusura degli account di Donald Trump, indica probabilmente anche la consapevolezza di una certa complicità o quanto meno condiscendenza, spiegata evidentemente dal ritorno economico generato dall’aumento del numero degli utenti. Ma soprattutto – e sta qui l’ambiguità maggiore – i social media sono lo strumento più efficace con cui “il sistema” e i suoi rappresentanti costruiscono la cultura massificante da cui quei gruppi si sentono esclusi. Simbolicamente, Internet e i media digitali sono icone delle grandi narrazioni dominanti della globalizzazione e del progresso tecnologico, in cui le persone che aderiscono alle tesi complottiste non riescono a trovare posto.
Il vaccino dell’inclusione
Con negazionismi e teorie del complotto siamo continuamente alle prese, e non solo negli Stati Uniti, alle cui recenti vicende abbiamo dedicato attenzione per il loro impatto globale, ma soprattutto per il loro valore paradigmatico. Un discorso analogo potrebbe essere riproposto a riguardo delle narrazioni no vax, no mask, no 5G, ecc., che in questi mesi abbiamo scoperto avere tanta presa anche nella società italiana. Gli eventi statunitensi hanno mostrato una volta di più quanto possano essere pericolosi.
Per scongiurare la minaccia che rappresentano è fondamentale la chiarezza su qual è la vera posta in gioco. Come spiegano sociologi e studiosi di comunicazione, non ci troviamo di fronte a contese per affermare una verità, come quelle tra teorie scientifiche concorrenti, che si risolvono con la potenza delle prove e delle argomentazioni, ma a una guerra tra narrazioni che manifesta un sottostante conflitto sociale. Per questo, come ha ampiamente dimostrato la realtà, lasciando molti sgomenti, strumenti come il fact checking o il debunking (smascheramento) non hanno alcuna presa, anzi alimentano una polemica infinita che serve solo a dare maggiore risonanza alle tesi complottiste e negazioniste.
Se prendiamo atto che si tratta di sintomi di una profonda frustrazione generata dal senso di esclusione e alienazione dalla propria storia, ci rendiamo conto che quello che serve è invece una rilettura critica delle narrazioni dominanti nelle nostre società, che ne smascheri i limiti e le contraddizioni e soprattutto evidenzi quali sono i gruppi che ne restano ai margini, in modo da poter cominciare a costruire narrazioni autenticamente inclusive, da cui nessuno si senta schiacciato e in cui tutti si sentano di poter essere soggetti attivi. È questo il passaggio da una politica e da una retorica che creano divisioni e opposizioni a proposte che puntano a unire e riconciliare, a condizione che lo facciano in modo autentico e non con manipolazioni ancora più sofisticate.
Inclusione, partecipazione, pari opportunità di protagonismo, spirito critico e autocritico sono da sempre nel DNA della democrazia. Quello che torniamo a scoprire è che la medicina migliore per curare la nostra democrazia malata è tornare ai suoi autentici fondamenti: si tratta di un percorso esigente, che richiederà di mettere in discussione posizioni di potere e privilegi acquisiti, e di negoziare un nuovo contratto sociale, facendosi carico dei conflitti che questo genererà. Ma significa anche che di fronte alla crisi della democrazia non brancoliamo nel buio.