Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto

Donna Haraway
Nero Edizioni, Roma 2019, pp. 284, € 19
Scheda di: 
Fascicolo: maggio 2020

Come affrontare la crisi ambientale? Davanti a questa domanda, la reazione probabilmente più comune, da parte di chi possiede consapevolezza delle questioni ecologiche in gioco, consiste nell’immaginare gli scenari futuri legati, per esempio, ai cambiamenti climatici, e conseguentemente pensare ad azioni mirate, da attuare nel presente, per scongiurare le derive devastanti del nostro attuale modo di vivere e di produrre. Si tratta, pertanto, di una presa di contatto con il futuro, dalla quale derivano conseguenze operative per il presente. La proposta di questo libro invece rovescia la prospettiva, lanciando una provocazione: e se la priorità non fosse pensare il futuro, ma restare in contatto con il problema (Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene è infatti il titolo originale dell’opera) ed elaborare modi nuovi per vivere il momento presente, con il suo carico d’incertezza?

Donna Haraway (1944-) non è nuova a posizioni provocatorie e disorientanti. Filosofa e biologa, l’A. è fra le personalità accademiche più reputate nel campo della filosofia contemporanea della scienza; è soprattutto nota per il suo contributo alla “teoria del cyborg”, introdotta nel 1985 nel suo saggio Cyborg Manifesto (ed. italiana Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995): assumendo come metafora la creatura fantascientifica dell’organismo cibernetico (CYBernetic ORGanism), metà essere umano e metà macchina, preconizzava una condizione umana che avrebbe lasciato alle proprie spalle ogni forma di dualismo fra corpo e mente, artificiale e naturale, maschile e femminile.

Aprendo questo volume, dobbiamo essere pronti a un’esperienza di disorientamento, anzitutto per la forma dell’opera che abbiamo dinanzi. Chthulucene è un libro che certamente possiamo definire di filosofia, ma nel quale sono scarsamente citati i filosofi della nostra tradizione; invece, trovano ampio spazio le dissertazioni sui batteri e sull’interazione fra umani e piccioni e non pochi riferimenti a una scrittrice di fantascienza come Ursula Le Guin; è un testo che parte dalla zoologia per concludersi in forma narrativa, riabilitando un genere filosofico antico, quello del mito, stavolta nella forma del racconto di fantascienza che occupa l’ultimo capitolo. L’opera spiazza anche per il lessico, ricco di neologismi e divertissement linguistici, a partire dalla stessa parola Chthulucene, ispirata a una specie di ragno della California, il Pimoa Cthulhu (ma l’A. nega ogni attinenza con il mostro omonimo creato da H.P. Lovecraft), assunto a emblema della nostra epoca, in quanto questa sarebbe caratterizzata dall’esigenza di tessere una rete di collegamenti, nella quale abitare, come il ragno dimora nella propria tela.

Non proporremo il riassunto di un’opera che è piuttosto complessa, come testimoniano un apparato di note di 57 pagine e circa 500 voci in bibliografia; invece, cercheremo di metterne a fuoco le intuizioni fondamentali, per poi indicare due motivi, per i quali riteniamo che questo pensiero meriti di essere preso in considerazione.

Partiamo da un rifiuto: quello che l’A. fa della categoria di Antropocene per designare il tempo che stiamo vivendo. L’immaginario dell’Antropocene, a suo giudizio, descrive «una storia tragica in cui c’è un solo attore reale, un solo vero creatore del mondo» (64), cioè l’essere umano, considerato alternativamente benefattore o distruttore del creato, ma sempre isolato in una autonomia prometeica, mentre gli altri viventi «sono solo oggetti di scena, terreno, appigli per la trama, o prede» (ivi). In tal modo, la retorica dell’Antropocene, pur con la giusta intenzione di denunciare gli effetti devastanti dell’attività umana, finisce per ripetere il paradigma antropocentrico, nel quale l’essere umano rappresenta se stesso su un piano separato dal mondo vivente, quale unico soggetto attivo, e trascura il fatto che la storia della vita sulla Terra è stata scritta da una moltitudine di soggetti, fra i quali l’homo sapiens rappresenta, a conti fatti, una sparuta minoranza. Abbiamo bisogno di una nuova narrazione, in grado di raccontare le tante storie della vita nel loro intreccio. Questa narrazione prende il nome di Chthulucene, un insieme di «storie multispecie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari» che ci fa capire che «siamo la posta in gioco gli uni degli altri» (85).

Il fondamento di questa nuova narrazione è racchiuso in un altro neologismo: simpoiesi, letteralmente “con-creazione”, un termine tratto dai lavori della biologa M. Beth Dempster e che indica sistemi viventi, privi di confini autodefiniti fra organismo e organismo. La tesi – esposta nel terzo capitolo, che vale la pena leggere con una connessione Internet a portata di mano, per esplorare i riferimenti a vari tipi di microorganismi – si può riassumere con le parole dell’A.: «le creature non precedono le loro relazioni, si creano a vicenda» (90), al punto che non dovremmo più parlare di unità viventi ma di “olobionti” (“ciò che vive insieme al tutto”); la conseguenza è concepire ogni creatura, quindi anche ognuno di noi, come il nodo all’interno di un intreccio di relazioni. L’A. attinge abbondantemente alle teorie della biologa Lynn Margulis (1938-2011), la quale ha assegnato un ruolo fondamentale ai fenomeni di simbiosi nel meccanismo evolutivo. Margulis infatti riteneva che l’unità chiamata “individuo” non fosse adeguata a spiegare le dinamiche dell’evoluzione. Secondo la sua visione, tutti gli organismi complessi, come piante e animali, compreso ovviamente l’homo sapiens, si sono evoluti a partire dalla simbiosi dei batteri e vanno pertanto considerati come sistemi simbiontici. In altri termini: non siamo mai soli, abita in noi una moltitudine di viventi e una parte di ognuno di noi non è umana; di conseguenza, ciò che chiamiamo “individuo” e anche “umano” non va pensato come una sostanza separata ma come una connessione fra entità diverse. Il terzo capitolo presenta dunque una complessa meditazione sulla natura del sé, interpretata in senso radicalmente relazionale. Occorre dire che questa interrogazione filosofica della biologia è un aspetto accattivante dell’opera ma, potenzialmente, anche il suo punto debole metodologico, se teniamo conto della rapidità con la quale le teorie scientifiche si avvicendano.

Questa visione della realtà, basata sull’ibridazione fra entità, apre a nuove possibilità di relazione fra le specie: è ciò che Haraway chiama “generare parentele” (making kin), cioè stabilire legami di cura basati sulla consapevolezza di essere simili e inestricabilmente interconnessi. In questo risiede la proposta etica del libro, che non prescrive determinate scelte ambientali da compiere, ma vuole soprattutto ispirare un modo di porsi davanti ai soggetti non umani. Gli esempi che riporta, infatti, non assomigliano a quelle che abitualmente identifichiamo come “azioni ecologiche”, ma riguardano soprattutto la trasformazione dell’immaginario. È il caso del progetto Never alone, un videogioco sviluppato in collaborazione con una comunità iñupiaq dell’Alaska e basato sul folklore locale; il giocatore assume il punto di vista di una bambina indigena che deve collaborare con una volpe artica per sopravvivere nell’ambiente polare.

Ci sono due ragioni, per le quali le proposte di Haraway meritano attenzione. La prima ha a che fare con il modo, in cui i problemi ambientali vengono presentati al grande pubblico. A ben vedere, la grande maggioranza della letteratura ecologica è debitrice di un’impostazione scientista-deontologica: presenta cioè un complesso di dati che dovrebbero descrivere l’unica realtà oggettiva, dai quali deriva, quasi automaticamente, la definizione di un dovere morale. Questo modello non è più sufficiente. È necessario giocare su piani diversi, mettendo le scienze in dialogo con le varie forme dell’arte e anche della cultura pop (come nel caso del videogioco citato), per incrociare i luoghi nei quali prende forma l’immaginario collettivo. Chthulucene compie questa operazione: un saggio ibrido, che gioca a stabilire collegamenti fra ambiti diversi, con una disinvoltura che, in alcuni passaggi, può lasciare perplessi. Occorre dire che chi cerca in questo libro un’argomentazione consequenziale, volta a sostenere una precisa tesi sull’interconnessione dei viventi e sul dissesto ecologico, resterà deluso, riscontrando uno stile argomentativo che predilige la metafora e il racconto. Un altro possibile approccio è provare a stare al gioco, lasciarsi provocare dalle connessioni inattese e vedere come queste risuonano nel nostro immaginario.

Il secondo motivo per cui vale la pena confrontarsi con le tesi di Haraway tocca una questione di fondo, cioè se sia possibile affrontare i problemi ambientali mantenendo inalterata una visione dell’essere umano come creatura a sé stante, svincolata dalle sue relazioni evolutive ed ecologiche. La sfida fondamentale delle etiche ambientali non consiste nel trovare soluzioni nuove all’interno di schemi vecchi, ma nell’imparare a pensare secondo parametri nuovi la relazione fra essere umano e ambiente. Chthulucene dà un contributo in questo senso, provocando radicalmente la visione che abbiamo di noi stessi. Nel momento in cui la pandemia di COVID-19 ci sta mostrando in termini drammatici la rete di connessioni nella quale viviamo (a partire dal fatto che il virus ha bisogno del nostro metabolismo cellulare per replicarsi), questo libro ci offre la possibilità di cogliere il lato positivo dell’interdipendenza; Haraway ci invita a stare nella complessità e nell’incertezza del momento presente, cogliendovi la possibilità di scoprire modi nuovi di essere al mondo.

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