Chiudere in conclave i partiti,
tagliando i viveri



Quando è in gioco il bene comune trovare un accordo diventa imperativo. Durante il recente conclave che ha portato all'elezione di papa Francesco, ci è stato più volte ricordato come nel lontano 1270 i cittadini di Viterbo, allora sede della corte pontificia, stanchi del fatto che i cardinali, riuniti da oltre un anno e mezzo, non riuscissero a eleggere un nuovo Papa, li chiusero nel palazzo papale, riducendo le razioni di cibo e arrivando a scoperchiare il tetto della sala dove erano riuniti per spingerli a trovare un accordo. Da quel momento l'elezione del Papa si tiene in "conclave": chiusi dentro a chiave.

Gesto urgente ed estremo (e non del tutto efficace: i cardinali impiegarono ancora quindici mesi), che, pur con tutte le differenze, ne ricorda un altro ben più recente, altrettanto urgente ed estremo (e speriamo più efficace): la decisione del presidente Napolitano di scegliere due gruppi di personalità a cui affidare il compito di trovare un accordo, sul piano delle riforme istituzionali e dei provvedimenti economici urgenti, che sblocchi l'impasse in cui la politica italiana si trova dopo le elezioni dello scorso febbraio.

Senza entrare nel merito delle commissioni e delle loro competenze, questa decisione dichiara ufficialmente che gli eletti in Parlamento - e le forze politiche di cui fanno parte - si stanno dimostrando incapaci di assolvere il ruolo che la Costituzione assegna loro, tra cui accordare a un Governo la fiducia che gli consente di entrare nel pieno delle proprie funzioni. Ma la decisione del presidente Napolitano ci ricorda che, ancor più radicalmente, il senso delle istituzioni rappresentative è quello di permettere di trovare accordi, al di là delle fratture - di interessi come di visioni del mondo - che dividono le nostre società sempre più multiformi. Come cittadini, ai nostri rappresentanti chiediamo innanzi tutto di trovare un accordo, anche fra posizioni che per noi sono inconciliabili. E questo non per buonismo o per amore di pace, ma perché di questo accordo, magari minimo, abbiamo bisogno per poter prendere tutte le decisioni che riguardano il bene di tutti e di ognuno, che vanno cioè al di là delle preferenze di ciascuna parte.

L'unico modo per farlo è che ciascuno rinunci ad assolutizzare la propria posizione, riscopra la propria parzialità costitutiva e accetti di percorrere l'unico sentiero della buona politica: quello della mediazione tra le parti. A questo servono le istituzioni della democrazia rappresentativa - se no tanto varrebbe lasciar esplodere i conflitti che percorrono le viscere della società senza nemmeno farsi carico dei costi della politica - e non è non solo accettabile, ma nemmeno pensabile, che questo scopo non sia raggiunto. Questo, con il consueto garbo, ha "urlato" all'Italia - ma soprattutto ai partiti - il Presidente della Repubblica venerdì scorso.

Al di là della radicale differenza che ciascuno proclama per sé, la decisione di Napolitano mette tutte le forze politiche di fronte all'unica responsabilità che condividono, relativizzando pretese che sono in radice identiche: l'ostinata insistenza del M5S sul fatto che "Ora tocca a noi" ottenere la guida del Governo non è diversa dall'analoga aspettativa del PD o dalla pretesa del PDL che "Ora tocca a noi" designare il prossimo inquilino del Quirinale. Fino a quando le singole parti - che per questo si chiamano "partiti", che abbiano o no questo termine dentro la propria "ragione sociale" - continueranno ad assolutizzare le proprie pretese e chiuderanno gli occhi sul fatto di essere parte, si precluderanno la possibilità di vedere quel bene comune che può essere raggiunto solo grazie alla mediazione. È questa la vera essenza della politica, che Napolitano prova ad affidare ai "saggi", vista l'indisponibilità di coloro a cui istituzionalmente compete. È anche l'unico strumento che può dare al Paese ciò di cui ha veramente bisogno: un Governo. Esattamente come la Chiesa del 1270. Sperando che siano gli stessi anche gli esiti a lungo termine: Gregorio X, il papa eletto dopo 1006 estenuanti giorni di sede vacante, si impegnò in una intensa serie di quelle che oggi chiameremmo riforme istituzionali. A partire da una nuova disciplina per l'elezione del pontefice.


L'articolo, del direttore di Aggiornamenti Sociali, è stato pubblicato su L'Huffington Post
09/01/2013
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