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Chiara e tempestiva: quando la politica è buona

Fascicolo: aprile 2025

In democrazia la buona politica dipende da diversi elementi, ma due sono senz’altro cruciali: affrontare per tempo le questioni importanti, anche quando sono spinose e complesse, sottraendosi alla tentazione di posticiparle; assicurarsi che vi sia una comunicazione quanto più possibile chiara e trasparente in ogni fase del processo decisionale, affinché siano note le posizioni tenute da tutti i soggetti coinvolti e la possibilità di partecipazione dell’opinione pubblica sia reale. La difficoltà di misurarsi con temi scottanti può assumere varie forme, che hanno tuttavia una radice comune: la classe dirigente di un Paese prova a sottrarsi all’esercizio delle proprie responsabilità. Ciò avviene quando politici, dirigenti delle amministrazioni pubbliche, imprenditori, esponenti dei corpi intermedi, non contribuiscono – ognuno in base al proprio ruolo – a individuare e adottare le misure ritenute più adatte per migliorare le condizioni di vita dei cittadini, non solo nel presente, ma anche in prospettiva futura.

Le decisioni sulla difesa a livello di Unione Europea sono un esempio calzante di quanto sia complicato maneggiare con cura questi elementi e delle conseguenze che ne derivano per la vita democratica quando questo non avviene, a partire dal disorientamento che si genera tra i cittadini.

 

La difesa europea: una questione ineludibile

Il tema della difesa europea si trascina da decenni. Malgrado le iniziative nel tempo intraprese e le dichiarazioni di buona volontà espresse dai Governi dei vari Stati membri, i passi in avanti in questo ambito di cooperazione sono stati minimi. Dopo il fallimento nel 1954 del tentativo di varare un’ambiziosa Comunità europea di difesa (CED), un progetto in cui credeva molto Alcide De Gasperi, la questione è stata di fatto rimossa dall’agenda politica dell’UE, fino a tornare prepotentemente centrale a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. È vero che il Trattato di Maastricht del 1992 ha introdotto il nuovo capitolo della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e che il Trattato di Lisbona del 2007 ha aperto alla possibilità futura di una difesa comune, che resta un traguardo quanto mai difficile da realizzare, soprattutto nello scenario odierno, visto che la procedura richiede l’unanimità degli Stati membri. Tuttavia, dopo il fallimento della CED «l’Unione non è mai stata concepita come un’organizzazione per tempi di guerra» (Fabbrini S., «La CED per difendere l’Europa», 27 novembre 2024, in <www.rivistailmulino.it>). Gli eventi degli ultimi anni – dai timori che la Russia possa espandere il conflitto dall’Ucraina ai Paesi europei confinanti al deciso cambio di direzione della politica internazionale statunitense con la presidenza Trump – obbligano oggi i Governi europei a rivedere le priorità dell’agenda politica, inserendovi con urgenza tale questione a lungo rimossa.

Diverse sono le ragioni per cui si è fatto ben poco su questo fronte: ha influito la situazione geopolitica emersa dopo la Seconda guerra mondiale con il mondo diviso in due blocchi; la generale convenienza a delegare alla NATO, e quindi all’alleato statunitense, l’impegno economico e la responsabilità politica di fronte ai cittadini per le scelte militari; l’orgoglio nazionale di Francia e Regno Unito, ex potenze mondiali, che hanno faticato ad accettare di essere relegate a un ruolo di comprimarie nello scenario internazionale; le reticenze tedesche ad affrontare il tema della difesa dopo le vicende della Seconda guerra mondiale; le tensioni che si registrano quando si ragiona su come tenere insieme l’impegno per la pace, centrale nell’ispirazione originaria del progetto europeo, e la maniera di concepire la politica della difesa.

Non ultima pesa la constatazione che procedere verso una maggiore cooperazione in questo ambito significherebbe compiere un ulteriore passo, dopo l’adozione della moneta unica, nella direzione di rendere l’UE un soggetto politico ancor più forte e definito nei suoi compiti, tanto nella proiezione internazionale quanto nei rapporti con gli Stati membri. Questo possibile esito ha incontrato da sempre forti opposizioni ed è apertamente osteggiato dalle forze populiste emerse negli ultimi anni.

Alcune di queste motivazioni sono state argomentate, trovando spazio nel dibattito pubblico, altre invece sono rimaste confinate in ambiti ristretti e hanno prevalso valutazioni che non sono riuscite a conciliare gli interessi nazionali con una visione strategica più ampia, in grado di andare oltre orizzonti ravvicinati.

 

L’importanza di un dibattito informato

Nel caso della difesa a livello europeo è particolarmente evidente quanto sia essenziale un reale spazio pubblico di confronto, affinché questioni cruciali per i cittadini trovino risposte effettive, condivise e fattibili. È necessario percorrere questo sentiero, dato che si tratta di una questione che solleva non poche resistenze, perché implica una cessione di sovranità nazionale.

Gli interrogativi sul tavolo sono numerosi e alcuni non sono di certo nuovi, visto che si ponevano già negli anni ’50 quando si discuteva di come strutturare la CED. Ancora restano questioni aperte: ad esempio, se sia opportuno avere un unico esercito sovranazionale o sia sufficiente integrare meglio quelli nazionali; se sia necessario passare a un bilancio unico europeo finanziato dai contributi nazionali o se la difesa europea dipenderà da quelli nazionali che saranno coordinati ma distinti. Ancora ci si chiede se la cooperazione «richiederà maggiori spese […] o realizzerà un’efficace interoperabilità fra le forze armate e fra i servizi di intelligence con minori spese» (Dastoli P.V., «Autonomia strategica e difesa europea», 20 febbraio 2025, in <www.rivistailmulino.it>). A un livello più fondamentale si colloca la questione del rapporto tra la cooperazione a livello militare e le scelte che rientrano nella sfera della politica estera. È evidente che i due ambiti sono strettamente collegati e ogni modifica introdotta in uno di essi si ripercuoterà inevitabilmente anche nell’altro. Nei dibattiti delle ultime settimane queste domande non trovano spazio. Esse hanno un orizzonte temporale che va oltre l’urgenza del momento, per prefigurare uno scenario che possa dare una risposta di lungo termine al tema della difesa europea, ma finiscono per essere fagocitate dal rincorrersi delle ultime notizie.

D’altronde, la qualità del dibattito non è stata migliore se si considerano le decisioni più recenti adottate dalle istituzioni europee. Non ha aiutato, ad esempio, la scelta di presentare a distanza di due settimane il piano ReArm Europe e il Libro bianco per la difesa, che però sono strettamente collegati nelle intenzioni della Commissione europea: il primo si propone di rafforzare la capacità di difesa nell’UE facendo ricorso a nuovi mezzi finanziari, mentre il secondo definisce l’approccio europeo alla difesa e identifica le esigenze di investimento. Senza questo intervallo temporale, molto lungo per gli attuali tempi dell’informazione, si sarebbero forse evitati fraintendimenti e polemiche scatenatisi dopo la conferenza stampa di Ursula von der Leyen del 4 marzo 2025, a proposito di punti essenziali.

Mettere l’attenzione sul riarmo senza esplicitare quale sia la visione più ampia a riguardo della difesa veicola un messaggio che può legittimamente suscitare reazioni negative. Non offrire una chiara comunicazione sull’effettivo ammontare dell’impegno in termini economici e sulle modalità di reperimento delle risorse necessarie per realizzarlo genera confusione e alimenta preoccupazione, per tutte le opzioni che si aprono e che possono portare ragionevolmente a ritenere che saranno intaccate o condizionate le voci di spesa pubblica destinate ad altri interventi. Non è stato poi sufficientemente chiaro che l’iniziativa della Commissione non era immediatamente operativa ma dava l’avvio a un iter decisionale, in cui sono coinvolte le altre istituzioni europee.

 

I benefici di processi condivisi

Parlare di buona politica e richiamarne due ingredienti essenziali può sembrare ingenuo in questo momento storico in cui i pilastri su cui si regge la convivenza civile, come la democrazia o il sistema multilaterale (cfr pp. 223-242), sono rimessi in discussione e considerati quasi scatole vuote. Anche la politica è guardata con indifferenza o sospetto. Farlo prendendo come spunto la difesa europea può risultare ancor più singolare, visto che proprio questo ambito sembra essere quello che meno si presta per ragionare ad esempio di trasparenza dei processi decisionali. Eppure proprio gli eventi recenti in questo ambito mostrano quanto la qualità delle nostre condizioni di vita dipenda dalle decisioni da parte della classe dirigente. Altre conferme, se mai fossero necessarie, le troviamo negli articoli di questo fascicolo dedicati agli scenari demografici e al settore automobilistico (pp. 251-259 e 260-268).
È evidente quanto sia importante che queste scelte siano improntate a una buona politica, che non rinvia all’infinito e che non decide in circoli ristretti. Proprio quest’ultimo aspetto, d’altronde, differenzia le democrazie dai regimi autocratici: un’informazione accurata e libera è un fattore essenziale perché vi possa essere la partecipazione di tutte le componenti della società, secondo le forme previste dai vari ordinamenti giuridici, favorendo tra l’altro la maturazione di un senso di appartenenza alla comunità civile e di corresponsabilità per le decisioni che vengono prese.

Un corollario va aggiunto: è auspicabile che le decisioni prese, oltre che tempestive e partecipate, siano anche efficaci. Tuttavia, nessuno può assicurare che sarà effettivamente così, anche quando si tratta di scelte preparate con la massima diligenza. Sarà il tempo a dare una risposta, mostrando la bontà delle soluzioni individuate e la capacità di adattarle al mutare dello scenario in cui si interviene. Si può essere certi che rimandare alle calende greche le questioni impellenti non migliora il quadro generale, anzi è molto probabile che ne derivi un peggioramento: la situazione si aggrava, a danno soprattutto delle persone più deboli; non sono più percorribili soluzioni in precedenza possibili; le risorse (economiche e non solo) da mobilitare per intervenire diventano di gran lunga maggiori. Ad ogni modo, esempi in positivo non sono mancati nel passato più o meno recente, come il famoso discorso di Mario Draghi per difendere l’euro durane la crisi del 2012, che riuscì a inviare un messaggio chiaro a tutti gli interlocutori, dagli operatori dei mercati finanziari ai cittadini, o le decisioni per far fronte alla pandemia sul piano sanitario ed economico, che hanno dato una risposta in un tempo incerto e di profondo smarrimento. Quando la classe dirigente riesce a innescare processi condivisi, i benefici diventano più concreti e tangibili, portando altri a loro volta a dare il loro contributo. Solo così si può dar vita a quel circolo virtuoso di partecipazione di cui le nostre società oggi più che mai hanno particolarmente bisogno.

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