Capire (e combattere) l'Isis: una questione anche comunicativa

Pubblichiamo un articolo di Paolo Carelli, del CeRTA (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi), dell'Università Cattolica di Milano, che offre una sintetica mappa dei canali comunicativi utilizzati dallo Stato islamico e spiega la strategia con cui questi strumenti vengono utilizzati. Sugli stessi temi, Carelli - collaboratore abituale di Aggiornamenti Sociali - pubblicherà un saggio più articolato in uno dei prossimi numeri.


Come ogni organizzazione terroristica, l’Isis presta grande attenzione agli aspetti di propaganda e comunicazione, rivelando una puntuale e sottile conoscenza dei meccanismi che governano il mondo dei media (vecchi e nuovi) nello scenario globale contemporaneo. In particolare, dimostra una piena consapevolezza degli elementi tipici dell’attuale ambiente mediale, dalla convergenza alla transmedialità. 

Di fronte alle stragi, agli attacchi e alle centinaia di vittime, soffermarsi sugli aspetti più propriamente di comunicazione può apparire fuorviante, se non persino irrispettoso. Non bisogna, tuttavia, sottovalutare la complessità dell’intero apparato comunicativo dell’Isis, che rappresenta una leva strategica dominante dell’intero progetto di avanzamento e costruzione dello Stato Islamico. Si tratta di una macchina articolata e organizzata, rispondente a una strategia sofisticata e multidimensionale che vale la pena conoscere e prendere in esame. 

Diversamente da Al Qaeda, per esempio, Isis utilizza una strategia meno verticistica e meno statica; se infatti, come si ricorda, la comunicazione di AQ si “accendeva” unicamente in occasione dei celebri video di Bin Laden inviati alle redazioni dei grandi network globali, mentre sotterranea proseguiva un’attività di proselitismo che rimaneva confinata ad alcuni siti specifici e forum di discussione, nel caso di IS siamo di fronte a un mosaico complesso e per certi versi più ibrido e sfuggente. 

Le molteplici attività di propaganda di IS possono essere ricondotte a due finalità di base ben specifiche: da un lato, il reclutamento che sfrutta il ricorso alla propaganda classica attraverso la reiterazione di parole e concetti d’ordine (il richiamo ancestrale del Califfato); dall’altro, l’autorappresentazione, cioè il modo con cui l’organizzazione si presenta al mondo, dove un ruolo chiave è ovviamente giocato dalla spettacolarizzazione della violenza, ma anche – come osservato recentemente a proposito dei fatti di Parigi – dal tentativo di immettere psicosi dentro le nostre vite quotidiane.

Tali finalità s’inseriscono dentro un vasto approccio sistemico, dove la comunicazione è solo un elemento al pari delle battaglie, delle esecuzioni, delle scelte politico-economiche effettuate dentro i territori controllati. Come ha scritto Ballardini in un volume efficacissimo dal titolo “Il marketing dell’Apocalisse”, la strategia comunicativa dell’IS ricalca quella di una normale strategia militare con azioni in campo aperto (l’utilizzo continuativo dei media mainstream) che si accompagnano a piccole e specifiche azioni di guerriglia (incursioni improvvise, anche attraverso pratiche grassroots). Ciò che colpisce è in primo luogo la vasta operazione di diversificazione e stratificazione dei linguaggi e dei mezzi utilizzati, nonché la loro integrazione. 

Al vertice, troviamo veri e propri centri di produzione, agenzie media che hanno il compito di concepire, produrre e distribuire il vasto armamentario comunicativo dell’organizzazione. I due centri di produzione principali sono: Al-Hayat Media Center, che sviluppa prevalentemente prodotti rivolti ai musulmani della diaspora, cioè coloro che vivono in territori diversi da quelli controllati dallo Stato Islamico e potenzialmente ricettivi rispetto al messaggio trasmesso; Al Furqan Media Foundation, che invece privilegia prodotti editoriali rivolti alle popolazioni autoctone. 

Si tratta naturalmente di una suddivisione di massima, poiché i prodotti comunicativi più conosciuti – ovvero le decapitazioni degli ostaggi – sono in realtà realizzati da AF sebbene abbiano chiaramente un target più globale. 

A fianco di questi due principali centri di produzione, ne esistono poi molti altri ciascuno con finalità e ruoli diversi, talvolta altamente specializzati, come è il caso di Al Ajnad, che realizza i suoni e gli inni musicali (nasheed) che accompagnano i video rilasciati e distribuiti dall’organizzazione. 

Grande risalto ha  il magazine ufficiale Dabiq, che riprende il nome di una località del nord della Siria dove, secondo l’interpretazione di un hadith (i detti attribuiti al Profeta), si svolgerà la battaglia finale tra cristiani e musulmani. Dabiq è una rivista in inglese, disponibile in versione sia cartacea che multimediale; ben curata graficamente, patinata, fornisce informazioni utili al reclutamento di militanti della diaspora attraverso la messa in mostra delle violenze subite dagli abitanti dei territori soggetti a bombardamenti e la reiterazione di concetti chiave come tawhid (unità). L’obiettivo è quello di “sensibilizzare” verso i valori dello Stato Islamico, con un richiamo il più possibile globale. 

In questi giorni, sta circolando l’ultimo numero della rivista, dove in particolare si fa riferimento all’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai nel quale sono morte oltre 200 persone, rivendicato come azione terroristica proprio dall’Isis con illustrazione e spiegazione dei dettagli. Ma l’attività editoriale dell’organizzazione si compone anche di altri prodotti, con taglio e contenuti diversi, più rassicuranti e soft poiché rivolti alle popolazioni che vivono all’interno dei territori controllati, come è il caso della rivista IS Report. 

Oltre all’attività sui social network, con decine di migliaia di account Twitter riconducibili all’organizzazione (molti dei quali sono stati oggetto di un’opera di pulizia e chiusura da parte della piattaforma di liveblogging), la comunicazione dello Stato Islamico ha sperimentato negli ultimi tempi il linguaggio più propriamente televisivo, seppur adattato alle logiche del web come la viralità e la fruizione rapida e mobile. E’ il caso, per esempio, di Khilafa TV, la web-tv del Califfato lanciata nel corso del 2015 come Tv ufficiale dello Stato Islamico, una sorta di “tv di Stato” che mira a rafforzare il processo di istituzionalizzazione dell’organizzazione, come ha sottolineato Marco Lombardi. Khilafa Tv si configura come una sorta di all news tv, dove spicca l’utilizzo della figura di John Cantlie, giornalista della Bbc ostaggio dei terroristi, al quale viene “affidata” la conduzione di un notiziario in lingua inglese. 

Altro prodotto innovativo sono i cosiddetti “mujatweets”, brevi clip video di una manciata di minuti in cui viene mostrata la vita (appositamente ricreata secondo sfondi sereni e rassicuranti) all’interno delle città controllata dall’Isis. Si tratta di trailer circolanti su YouTube e poi ampiamente riprodotti sulle piattaforme social, che puntano a sensibilizzare musulmani della diaspora potenzialmente reclutabili al progetto e all’ideale globale dello Stato Islamico. 

Tutta la strategia mediatica dell’Isis gioca quindi sul doppio binario della violenza, apertamente mostrata con l’obiettivo di seminare panico e terrore, e della rassicurazione; ciò che cambia, di volta in volta, è naturalmente il target a cui l’organizzazione si rivolge e la scelta dei mezzi più efficaci a veicolare determinati contenuti e ottenere determinati effetti. 

Ciò che colpisce nel progetto comunicativo dell’Isis è la capacità di modellare alcune delle tendenze tipiche della società della convergenza, come la stimolazione di pratiche di sharing, di gamification (ovvero l’utilizzo dell’elemento ludico, come per esempio nel caso di videogames appositamente sviluppati), la diversificazione dei format e dei generi (utili anche per superare la naturale assuefazione alla violenza e allo stesso tempo dare vita a una “teatralizzazione” della morte e del terrore) e la decentralizzazione comunicativa. Se, infatti, i centri di produzione condensano al proprio interno la grande maggioranza di prodotti mediali immessi nel circuito comunicativo, è altrettanto vero che l’esistenza di una fitta rete di attivisti, sostenitori e simpatizzanti rende difficile l’individuazione dei nuclei più fortemente ideologizzati. 

Capire l’Isis, in sostanza, non è solo una questione geopolitica e militare, ma anche una questione comunicativa che necessita di un’analisi meno sommaria e superficiale e che scomodi teorie, tecniche e linguaggi del marketing e del mondo dei media. 

Paolo Carelli
24/11/2015
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