Già nelle intenzioni dell’oncologo Van Rensselaer Potter, che ne diffuse il nome alla fine degli anni ’60, la bioetica era caratterizzata da una prospettiva globale, al cui interno meglio collegare il conoscere scientifico e i valori umani. La nuova saggezza che egli riteneva necessaria riguardava sia l’umanità nel suo insieme sia la dimensione ecologica. Le risorse del pianeta sono infatti decisive per la sopravvivenza della specie umana. Il tentativo era di stabilire un ponte non solo verso il futuro, reso incerto dagli sviluppi di potenti biotecnologie, ma anche tra diverse discipline scientifiche, in particolare le scienze della natura e le scienze umane, incluse etica e filosofia.
Tuttavia la riflessione si è rapidamente concentrata sulle questioni sollevate dalla ricerca biomedica e dall’introduzione di nuove tecnologie nella pratica clinica. La bioetica è così divenuta una sorta di rivisitazione dell’etica medica. Aborto, fecondazione assistita, eutanasia, test genetici, trapianti d’organo hanno monopolizzato l’attenzione. Quanto a modelli etici, questo orientamento ha soprattutto privilegiato un paradigma che ha accentuato in senso neoliberale i valori dell’autonomia e della beneficità, con una curvatura utilitaristica nell’ottimizzare il rapporto tra costi e benefici.
È all’inizio del terzo millennio che si affaccia nuovamente una prospettiva rimasta nell’ombra. Infatti, con il passare dei decenni, una più ravvicinata convivenza delle culture, dovuta all’intensificarsi di spostamenti e comunicazioni, ha fatto maturare la consapevolezza delle interconnessioni tra i fenomeni ambientali e tra i popoli. Le disuguaglianze e gli squilibri appaiono con più evidenza come effetti di scelte che non rispettano la giustizia e le legittime esigenze di tutte le popolazioni della Terra, mettendo seriamente a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’homo sapiens.
Per quanto riguarda la pratica e la ricerca biomediche, il loro impatto supera chiaramente le frontiere. Pensiamo per esempio alla maternità per procura, che coinvolge donne indiane su committenza di coppie occidentali, o alla sperimentazione clinica di farmaci con gruppi di pazienti africani, o ancora alla ricerca genetica su piccole popolazioni omogenee («caccia al gene», p. 6), i cui risultati vengono poi sfruttati commercialmente sui mercati internazionali. I temi classici della bioetica hanno quindi assunto una portata più ampia. Ma il loro numero si è anche dilatato: si pensi alla sicurezza alimentare, le disuguaglianze nell’accesso alle cure e nella distribuzione dei risultati della ricerca scientifica, i profitti realizzati brevettando varietà di piante alimentari selezionate in secoli di coltivazione secondo tradizioni locali («biopirateria», p. 7) o alla perdita di biodiversità.
Di questa parabola storica della bioetica trattano i primi quattro capitoli del libro che qui presentiamo. L’A. è considerato tra i massimi esperti mondiali della bioetica globale. Laureato in medicina nei Paesi Bassi, è stato docente di Etica medica e di Bioetica internazionale presso l’Università di Nimega, direttore della Divisione di Etica della scienza e della tecnologia dell’UNESCO, direttore e docente di Etica sanitaria presso l’Università di Duquesne a Pittsburgh (Stati Uniti). Ha quindi una ampia competenza e ha ricoperto ruoli per cui è stato direttamente coinvolto nei cambiamenti di cui tratta.
Di fronte a questioni bioetiche che hanno una portata globale occorre ricercare strumenti teorici e pratici che consentano risposte ugualmente globali. Certo non mancano le critiche rivolte a questa ricerca. Alcuni l’accusano di riproporre i temi tradizionali, solamente collocandoli in un contesto più ampio, o di non riconoscere l’insormontabilità del pluralismo morale che può essere affrontato solo in modo pragmatico; altri di voler surrettiziamente imporre una impostazione occidentale, che sarebbe una nuova forma di colonialismo culturale. Alle critiche è però possibile controbattere con argomentazioni che mostrano come tra globale e locale non ci sia una separazione netta, ma una interazione e una interdipendenza di reciproco arricchimento; che le differenze non impediscono prospettive convergenti e pratiche condivise; che il livello individuale delle decisioni non può essere avulso da quello politico e culturale. Per entrare in questa prospettiva, occorre però ampliare l’orizzonte e dotarsi di nuovi strumenti e quadri di riferimento teorico. L’A. individua quattro aree che sono rilevanti per elaborare delle risposte globali.
La prima riguarda i quadri etici di riferimento. Qui il dibattito in ambito bioetico è debitore di quanto avvenuto a livello internazionale a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, essa deriva da un lungo percorso di elaborazione. Anche il cammino della bioetica è frutto di una serie di passi che hanno progressivamente fatto maturare la riflessione, anche attraverso tensioni e difficoltà. L’UNESCO ha consentito uno sviluppo sistematico di tale confronto, che ha coinvolto anche altre istituzioni, come l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). È stato così possibile formulare principi che ispirassero le legislazioni statali sulle pratiche riguardanti la salute. Tappa qualificante è stata la Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani del 2005. I quindici principi di cui si compone sono articolati secondo una logica di progressivo ampliamento, che si estende su un arco che va dall’essere umano in senso stretto (come dignità, autonomia, beneficio e danno) fino alle comunità umane (rispetto per le diversità culturali, solidarietà e cooperazione) e alla specie umana nel suo complesso (protezione delle generazioni future, ambiente, biosfera e biodiversità). Pur non priva di debolezze, la Dichiarazione indica però la possibilità di realizzare un consenso su alcuni principi etici, superando l’interpretazione neoliberale dei quattro riferimenti classici della bioetica “principialista”: autonomia, beneficità, non maleficità e giustizia. Questi ultimi non scompaiono, ma vengono reinterpretati all’interno di un contesto che dà un maggiore rilievo alle dimensioni interpersonale, sociale e ambientale. Viene così oltrepassata la loro connotazione individualista.
La seconda area è quella della governance globale. Nel nuovo contesto planetario si richiede un’azione collettiva che mobiliti una varietà di soggetti: non solo i governi nazionali, ma istituzioni internazionali, organizzazioni non governative, associazioni professionali, università. Moltiplicandosi i soggetti coinvolti, diventa di cruciale importanza una regia efficace, oltre a nuovi approcci e nuove capacità interpretative. Un ruolo di rilievo è riconosciuto all’OMS, seppure quest’ultima abbia mostrato diversi limiti di carattere economico e gestionale. L’A. riporta il caso del virus Ebola, che esplose nel 2014 soprattutto in Sierra Leone e in Liberia. L’attualità dell’esempio è del tutto evidente: molto avremmo potuto imparare anche per gestire l’attuale pandemia di COVID-19.
Perché i principi globali e le varie organizzazioni menzionate abbiano una loro effettiva incidenza occorre che siano integrate e sviluppate attraverso una pratica globale. Questa è la terza area, che implica un impegno non solo teorico, ma anche di azione cooperativa: «è un continuo scrutare, analizzare, discutere, scambiare, interpretare, applicare, modificare, trasformare, negoziare e interagire tra globale e locale» (p. 255). Per questo occorre prendere sul serio sia la diversità morale sia l’universalità, in una dinamica di tipo interculturale in cui l’arricchimento è reciproco. La convergenza ricercata non può mai darsi per acquisita: occorre una sempre rinnovata disponibilità all’interazione e alla comunicazione. Quindi il senso universale di principi bioetici che risultano da una comune elaborazione richiede un’interpretazione in contesti particolari, per essere reso pertinente ai problemi che vi emergono. In questo la bioetica globale si differenzia da quella tradizionale, improntata secondo l’ideologia neoliberista: essa «sottolinea interdipendenza, interconnessione, valori condivisi e prospettive comuni» (p. 256). L’accento viene posto più sulla trasformazione sistemica che sugli interessi individuali. È la nozione stessa di globalizzazione che viene diversamente interpretata rispetto a quella basata sulla logica del mercato e di una crescita economica scriteriata.
Si elabora così un nuovo discorso (quarta area) in cui vengono immessi principi come solidarietà, giustizia, vulnerabilità, responsabilità sociale e protezione delle generazioni future. La bioetica globale si configura quindi come etica sociale, che promuove il cambiamento di situazioni inaccettabili di disuguaglianza e di ingiustizia. La tesi di fondo del libro è che la bioetica tradizionale non basta più, in quanto strettamente legata a quel neoliberismo che è il maggior responsabile dei problemi che la governance globale è chiamata ad affrontare, avvalendosi anche del prezioso contributo di un nuovo paradigma bioetico.
Il volume si presenta come una valida introduzione a questo orientamento emergente della bioetica, con informazioni ben organizzate e argomenti solidi, che valorizzano una impostazione pragmatica. Il continuo ricorso a situazioni reali (presentate sinteticamente in numerosi riquadri del testo) indica anche visivamente lo sforzo di articolare gli aspetti teorici con l’esperienza concreta, di casi specifici o di intersezione tra le diverse culture.