Jean-Marc Balhan è un gesuita belga, originario della città dove sorge la più grande moschea del Paese. Dopo il suo ingresso nella Compagnia di Gesù, ha vissuto a lungo in Stati a maggioranza musulmana, in particolare Egitto e Turchia. È uno dei testimoni che raccontano la propria esperienza di incontro con l'islam nel nuovo numero di Promotio Iustitiae, pubblicazione monografica del Segretariato per la giustizia sociale e l'ecologia della Curia generalizia dei gesuiti.
Vivere insieme ai musulmani. Un viaggio all’incontro con l’altro: questo il titolo del nuovo numero monografico, integralmente disponibile online in varie lingue. Pubblichiamo l'articolo di Balhan, particolarmente significativo dopo gli attentati di Bruxelles del 22 marzo.
Il povero
Belga di origine, ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Verviers, città vicina alla frontiera con la Germania e i Paesi Bassi. Centro importante dell’industria laniera fino agli anni sessanta, questa città borghese ha conosciuto nei decenni successivi un declino economico e una progressiva presenza di persone di origine straniera.
Tra queste, i musulmani sono soprattutto di origine marocchina e turca. Hanno cominciato ad arrivare negli anni sessanta, invitati dal Belgio come manodopera per l’industria. Attualmente sono presenti un po’ ovunque nel centro città, nelle attività commerciali come nelle scuole, ma non era così quando ero più giovane.
Da bambino, negli anni settanta e ottanta, per me essere musulmano significava essere “arabo” e far parte di una popolazione povera, socialmente emarginata e con la quale non avevo, tra l’altro, alcun contatto. Erano confinati in alcuni quartieri nei quali andavo raramente. “Arabo” era per me sinonimo di ladro, o di delinquente. A quell’epoca, la barzelletta più comune su di loro era: “Che differenza passa tra la strada X e il Canale di Suez? Risposta: nel Canale di Suez, gli arabi sono solo su un lato...”.
È con queste immagini e questi pregiudizi che sono cresciuto, e parallelamente con un immaginario romantico dell’ “Oriente” perché, come il nostro eroe nazionale Tintin, in effetti ho sempre desiderato “partire”... Nel 1984, arrivato all’università, a Bruxelles, ho stretto amicizia con uno studente iraniano con cui discutevo dei benefici della rivoluzione islamica. Ma a quell’epoca, durante il primo ciclo di studi di medicina, mi interessavo soprattutto a quello che allora si definiva “il Terzo Mondo”, sognavo di partire con “Medici senza Frontiere”, e ho fatto uno stage nel Congo.
Entrato nella Compagnia nel 1987, ho cominciato a interessarmi ai musulmani che sono nel mio Paese, con l’intento di avvicinarmi a una popolazione svantaggiata, e di conoscere una cultura diversa. Ma avrei dovuto aspettare il magistero per incontrare l’Islam.
L’Islam
“Vuoi andare in Africa? Ti mando in Egitto”. È con queste parole che il mio Provinciale dell’epoca mi ha mandato a insegnare per due anni al Collège de la Sainte Famille al Cairo, un’esperienza che nella mia vita è stata una vera svolta e uno choc culturale tanto più benefico perché già da prima della partenza la mia fede stava attraversando un momento di crisi ed ero alla ricerca di un “Dio più grande” di quello che allora pensavo non fosse che una proiezione della figura genitoriale.
Quando adesso mi rivolgo ai dei musulmani in occasione di conferenze interreligiose, comincio sempre dicendo che se in quel momento mi trovo davanti a loro come religioso e sacerdote cattolico, è perché l’Islam di cui sono portatori e che ho incontrato in Egitto durante il magistero ha sostenuto la mia ricerca di allora di un Dio “più grande”. Non c’è proprio modo di sfuggire a quel richiamo che risuona cinque volte al giorno: Allahu akbar. Ashhadu an la ilaha illa Allah. «Dio è più grande. Testimonio che non c’è dio, all’infuori di Dio». Dio è più grande di qualsiasi idolo. Non c’è dio, all’infuori di Dio: ma chi è, e dove posso trovarlo? In una grande moschea vuota che mi invita a cercarlo sempre “oltre”? O in una chiesa in cui figura un Dio che allora pensavo “troppo vicino” per essere vero, “umano, troppo umano”? Sarà questo l’inizio di una lotta che non avrà termine che tanti anni dopo, con la riscoperta del Dio trinitario e dell’amore come dono di sé.
Sono stato molto colpito anche dalla fiducia che il musulmano ripone in Dio e dalla gratitudine che gli porta, quali che siano le circostanze in cui si trova a vivere. Quando in Egitto chiedete a qualcuno come stia, la maggior parte delle volte non vi risponde né che va bene, né che va male, semplicemente al-hamdu li-llah, “Dio sia lodato”. Il musulmano sembra essere in pace nelle mani di Dio, mentre il cristiano occidentale (e io per primo!) appare sempre in lotta contro ciò che viene percepito come privo di senso. Ho invidiato a lungo questa fiducia prima di cominciare a trovarla in questi ultimi anni nella preghiera di abbandono.
In Egitto ho anche scoperto l’islam politico che, nonostante le sue inavvedutezze, aveva i colori di una “teologia della liberazione” in un universo post coloniale in cui il presidente raccoglieva il 99% dei “voti”. La cosa che più mi metteva in difficoltà era ciò che avvertivo come povertà intellettuale di questo islam che, pur radicandosi in una tradizione gloriosa, mi appariva sulla difensiva, paralizzato dal conservatorismo e la paura di rimettersi in questione. In Egitto, “pensare” era pericoloso. Chi ci provava rischiava la vita.
Dopo il magistero al Cairo è giunto il momento degli studi di teologia, in cui ho cercato non soltanto di purificare la mia fede, ma mi sono anche preso il tempo per cercare l’origine degli archetipi antimusulmani e dei meccanismi di proiezione che operano nello spirito degli europei quando si tratta di “Oriente”. Ne ritroverò di simili in seguito, nel dibattito sull’ “ingresso della Turchia in Europa”. Ricevuta, alla fine di quegli studi, una missione nel “dialogo interreligioso”, mi sono ritrovato in Egitto, e poi al PISAI a Roma, per studiare arabo e islamistica, durante i quali ho approfondito in modo particolare l’ermeneutica coranica e la teologia della rivelazione, cercando di “capire” dall’interno e lasciarmi toccare da ciò che per i musulmani è l’unico miracolo, quello del Qur’an “inimitabile”, imparando a memoria le belle sure, alcune delle quali ispirano ancora oggi talvolta la mia preghiera.
Il musulmano
Mentre mi apprestavo a tornare nel mio paese di origine, speravo di poter fare prima la conoscenza di un islam che non conoscevo e che sarebbe stato presente dove avrei lavorato: l’islam turco. Alla fine del millennio, ho avuto la fortuna di poter trascorrere due settimane nella periferia di Istanbul con alcuni studenti che facevano parte di un movimento neo-sufista molto comune in Turchia. Avevo già incontrato alcuni poveri, oltre a una grande tradizione religiosa: adesso incontravo davvero per la prima volta dei musulmani credenti, intelligenti e a loro agio nella propria pelle, in grado di parlare in prima persona e in tutta onestà della propria fede, del proprio cammino e della loro ricerca di senso.
Per la prima volta nella mia vita “dialogavo” e avevo la possibilità di entrare da pari, dall’esterno e in modo talvolta un po’ romantico, nell’universo di un "altro" concreto, e non soltanto in una tradizione. E qui si tratta di un universo sconcertante, in cui le “leggi spirituali” sono diverse, e in cui si vedono anche le proprie convinzioni messe sotto pressione da qualcuno di particolarmente simpatico, che parla in prima persona del suo rapporto con Dio in una relazione di fiducia: un’esperienza di alterità.
Un giorno in cui parlavamo dei “bei nomi” di Dio, sono rimasto colpito dal fatto che mentre chiedevo a questi studenti quale di essi preferissero, la maggior parte di loro ne indicava due: uno che noi definiremmo spontaneamente “positivo”, come “Colui che perdona”, e un altro “negativo”, come “Colui che domina”, o “Colui che punisce”, entrambi percepiti come condizione indispensabile di una vita spirituale autentica.
Uno dei giovani si è spinto fino a tracciare un grafico con la “paura” sul piano delle ascisse, e il “successo” su quello delle ordinate; poi, tracciando una curva gaussiana, mi ha spiegato che per riuscire nella vita non ci voleva né troppa, né troppo poca paura, ma un equilibrio sapiente! Poiché questo è il desiderio profondo del musulmano credente: riuscire nella vita, arrivare alla felicità nella vita presente, ma soprattutto in quella futura. Vi viene invitato nel corso della chiamata alla preghiera: hayya ‘ala al-falah, letteralmente “venite al successo”. Vi arriverà se segue “la retta via”, come chiede recitando la Fatiha, la sura di apertura del Qur’an.
Il Qur'an è caratterizzato da esigenze molto concrete che richiedono una disciplina di vita cui questi giovani si applicavano, che si tratti della preghiera rituale cinque volte al giorno, delle regole di purezza o di quelle legate all’alimentazione, per non parlare di un’imitazione pia della vita del profeta.
Nel momento in cui la Compagnia ha avuto in animo di aprire una nuova residenza ad Ankara che fosse al servizio del dialogo interreligioso e dell’unica parrocchia cattolica della capitale turca, vi sono stato inviato in qualità di co-fondatore alla fine del 2001, e ci sono ancora oggi.
L’uomo
Se i miei studi di arabo e islamistica mi hanno appassionato, mi sono anche sembrati rappresentare l'essenza di una tradizione vissuta in modo così diverso da persone così differenti. La mia transizione nel mondo arabo, nello specifico egiziano e in quello turco, insieme a quasi quindici anni di presenza in quest'ultimo paese, mi hanno dato una coscienza acuta della diversità degli islam, e soprattutto del fatto che “il Musulmano” è innanzitutto un essere umano comune, con le sue gioie e le sue pene, la sua vita familiare e professionale radicata in una società segnata da una storia e una cultura che fanno di lui ciò che è, e per il quale la religione non è che una delle numerose dimensioni della sua vita. In rapporto intimo con il suo contesto. È per questo motivo che ripeto spesso in modo un po’ provocatorio che “l’Islam non esiste”. Perché in effetti si incarna in società, storie, culture e lingue molto diverse.
Il mondo arabo, in cui spesso esiste un desiderio di fusione tra religione, lingua, cultura e società, e che ha conosciuto la colonizzazione, non ha molto in comune con un mondo turco che non conosce l’arabo; che originario dell’Asia centrale ha attraversato l’Iran, ha integrato altre tradizioni ed è segnato dal sufismo; in cui l’Islam è stato amministrato da un impero, erede dell’Impero bizantino, che non ha mai conosciuto il giogo del colonialismo, ma semmai una sorta di esplosione sotto la pressione dei nazionalismi, quindi delle riforme laicizzanti di Atatürk e di una centralizzazione e un controllo stretto dopo l’avvento della Repubblica nel 1923. In queste società, anche il posto di chi non è musulmano è molto diverso, nel senso che assume un aspetto molto più marcatamente nazionalista in Turchia, dove il cristiano è visto innanzitutto come straniero – spesso greco o armeno – portandosi dietro il peso della storia legato a queste “nazionalità”.
Le mie permanenze in altre aree del mondo come l’India e il Senegal, in occasione delle riunioni del gruppo dei Jesuits Among Muslims e gli incontri con compagni di tutto il mondo in questo quadro, non hanno fatto che confermare ai miei occhi questa diversità irriducibile in seno all’ “Islam” e tra i musulmani.
Detto questo, Turchia a parte, “l’Islam” è vissuto in modi estremamente diversi, anche se lo Stato cerca di controllare e unificare tutto sotto la propria egida. Nel mondo universitario che merita un discorso a sé, talvolta c’è poco in comune tra i quadri della facoltà di teologia di Ankara, modernista, in cui molti giovani insegnanti hanno studiato all’estero, anche in facoltà di teologia cristiana, e per i quali la filosofia del linguaggio e le teorie ermeneutiche contemporanee non hanno più molti segreti, e quelli delle nuove facoltà istituite di recente in svariate città di provincia.
A fianco a questi mondi ufficiali, ci sono quelli delle comunità sufiste e neo-sufiste che mostrano anche un’estrema differenza di sensibilità, a partire dai “pietisti” come il movimento cui appartenevano i giovani di cui ho scritto prima, fino ai naqshbandi che sono all’origine dell’islam politico in Turchia. Quanto a Rumi, fondatore dei “dervisci rotanti”, è diventato quasi un eroe nazionale, sia per credenti di diversa natura, sia per i musulmani postmoderni, laici in cerca di spiritualità.
Il musulmano: potenziale terrorista o fratello in umanità?
Quando passo di nuovo per Verviers, a trent’anni di distanza, non riconosco più la piccola città tranquilla della mia infanzia. Vedo una popolazione piena di colori, insegne di negozi e manifesti in lingua turca, sento un adolescente della mia famiglia dire: “A scuola, come seconda lingua, ho scelto il tedesco, per stare insieme ai bianchi”; e mi hanno chiesto di tenere una conferenza per condividere la mia esperienza e “aiutare a vivere insieme”. Da parte loro, le moschee organizzano giornate a porte aperte per “superare i pregiudizi e rafforzare i legami”, in una città che ora ospita il più grande Centro islamico del Belgio.
Questa piccola città di provincia è anche legata, suo malgrado, alla macrostoria: nel gennaio del 2015, è stata teatro di un’operazione antiterrorismo nel corso della quale hanno perso la vita due persone appena rientrate dalla Siria, che preparavano un attentato. Quando poco prima stavo organizzando una conferenza in una città vicina insieme a un professore di religione islamica di origine marocchina, questi mi confidava quanto fosse difficile per lui vivere in Belgio da musulmano, perché si sentiva sempre sulla difensiva, quasi fosse costretto a rispondere di tutti i fatti e i gesti compiuti dai musulmani nel mondo, soprattutto quelli più violenti.
La guerra e il terrorismo toccano numerose aree del globo, ma il loro humus è spesso locale, e le vittime sono per la maggior parte musulmane, anche se in molti media il peso dato alla morte delle vittime musulmane e quelle non musulmane è spesso assai diverso. È una realtà, questa, che esige un’analisi differenziata a seconda delle aree coinvolte, che consenta di comprendere quali siano le dinamiche locali che generano la violenza a fronte di chi, quale sia la sua appartenenza, cerca di semplificare in modo eccessivo i fenomeni in corso. Ciò non impedisce che, invece di infilare la testa sotto la sabbia e dire “questo non è il vero Islam”, i pensatori e gli uomini politici musulmani trovino il coraggio di guardare la situazione in faccia e fare un esame di coscienza; perché, lo vogliano o no, “l’islam è anche questo”.
Possa la situazione attuale far nascere un “mai più” che si radichi in istituzioni giuste per tutti e per tutte, e un pensiero rinnovato. Peraltro, chi vive con i musulmani, soprattutto nei paesi in cui è minoritario, è chiamato a superare la paura, il disprezzo e le generalizzazioni ingiuste, per incontrarli come uomini e donne che, in modo diverso a seconda delle aree del mondo, soffrono spesso più di loro della situazione che nel momento in cui scrivo è al centro della cronaca; senza, per questo, negare la sofferenza vissuta dai non musulmani in altri paesi intrappolati in conflitti più grandi di loro e che li cancellano di fatto da intere aree del mondo.
Originale francese
Traduzione Simonetta Russo