Addio a Mandela, il leader che sconfisse l'apartheid


Icona della lotta antipartheid, simbolo della riconciliazione tra la comunità bianca e quella nera del Sudafrica, Nelson Mandela è morto il 5 dicembre all’età di 95 anni.
Figlio di una famiglia nobile di etnia xhosa, ha studiato in un collegio cattolico per poi iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza. È proprio durante i suoi studi in Legge che inizia a schierarsi contro le politiche segregazioniste del governo bianco di Pretoria. Unitosi all’African National Congress (Anc) nel 1942, due anni dopo fonda l’associazione giovanile Youth League, insieme a Walter Sisulu, Oliver Tambo e altri. Nel 1961 diventa il comandante dell’ala armata Umkhonto we Sizwe dell’Anc («Lancia della nazione»), della quale fu co-fondatore. In questa prima fase della sua attività politica, Mandela considererà la violenza come un mezzo per lottare contro le ingiustizie, ma di ciò si ricrede durante la prigionia, diventando un acceso fautore della non-violenza. Parallelamente alla sua attività nell’Anc, Madiba (il nome tribale della sua famiglia) si batte anche sul piano giuridico, offrendo servizi legali ai più poveri, per contrastare le ingiustizie crescenti di un regime bianco che fa della segregazione la sua ragione d'essere.

Il suo attivismo non può passare inosservato. Infatti il regime lo fa arrestare e, nel 1964, un tribunale lo condanna all’ergastolo per il coinvolgimento nell’organizzazione di azione armata e cospirazione per aver cercato di aiutare gli altri Paesi a invadere il Sudafrica. Rimarrà in carcere per 27 anni, 18 dei quali trascorsi nel penitenziario di massima sicurezza di Robben Island, oggi trasformato in museo.

In quegli anni la sua figura diventa un’icona internazionale contro le discriminazioni razziali. Politici, sportivi, cantanti europei e nordamericani ne richiedono a più riprese il rilascio, ma Pretoria non cede. Solo nel 1989, di fronte a crescenti pressioni internazionali, il regime capisce che deve scendere a compromessi con l’ormai anziano leader. Iniziano così lunghe trattative che porteranno al suo rilascio, alla legalizzazione dell’Anc e a libere elezioni.

La comunità bianca che, per lungo tempo, ha governato con pugno di ferro il Paese teme «un bagno di sangue». Mandela, conscio delle tensioni che attraversano la comunità bianca e quella nera (che in alcune frange estremiste cova il desiderio di una vendetta violenta), si trasforma in un garante della pace sociale. Eletto presidente nel 1994, lavorerà alla riconciliazione insieme a personalità quali il vescovo Desmond Tutu. Il suo capolavoro è indubbiamente la Commissione verità e riconciliazione nella quale si assicurava l’immunità a chi aveva commesso reati razziali se si rendeva disponibile a confessarli in pubblico. Scaduto il mandato, si ritira a vita privata dedicandosi alle attività benefiche portate avanti dalla sua fondazione.

Alla sua morte il Sudafrica è ancora un Paese pieno di contraddizioni. Se il potere politico è ormai gestito da una classe politica nera, le leve economiche sono ancora in mano ai bianchi. La tanto auspicata redistribuzione dei redditi non è stata in alcun modo attuata e, nonostante il reddito pro capite sudafricano sia tra i più alti del continente (7.158 dollari Usa), circa il 40% della popolazione vive ancora con meno di due dollari al giorno. Il Sudafrica è oggi al 116° posto, su 124 nazioni, nella classifica degli Stati per uguaglianza nella distribuzione del reddito. Spetterà ora alle nuove leve, nate dopo la fine dell’apartheid, superare le divisioni fra le comunità e costruire quella «nazione arcobaleno» auspicata da Madiba.

Il percorso umano e politico del leader sudafricano può essere ricostruito attraverso alcuni articoli pubblicati dalle riviste della Fondazione Culturale San Fedele, Aggiornamenti Sociali e Popoli, che vi proponiamo di seguito:




06/12/2013
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