A cento anni dalla nascita di Aldo Moro: ritratto a figura intera

Il 23 settembre ricorre il centesimo anniversario della nascita di Aldo Moro. È un’occasione preziosa per ricordare l’opera di una vita innovatrice, conclusasi drammaticamente, con il rapimento e l'uccisione da parte delle Brigate Rosse nel 1978. 

Perché lo statista pugliese viene considerato un personaggio significativamente influente per la nostra storia? Quali ruoli ricoprì e in che modo la politica dell’Italia repubblicana è stata plasmata da questa attiva personalità? In che cosa consisteva la sua visione politica? Sono domande a cui risponde Paolo Acanfora, Docente di Storia e istituzioni dell’Unione Europea e Storia delle relazioni internazionali, allo IULM di Milano, in un articolo sul numero di agosto-settembre di Aggiornamenti Sociali. Di seguito alcuni passaggi del paragrafo conclusivo. (Clicca qui per scaricare il pdf dell'articolo). 



Per queste sue capacità politiche di mediazione, di paziente tessitura ma, al contempo, anche di definizione di una chiara progettualità politica, lo statista pugliese è stato da molti ritenuto l’erede di De Gasperi. Può forse essere una forzatura: tra i due vi erano notevolissime differenze, ma certamente la definizione di Moro come “il più degasperiano dei dossettiani” ha una sua efficacia descrittiva. Non si tratta però, come pure spesso si è fatto, di mettere a confronto due diversi idealtipi – il teorico politico utopistico (Dossetti) e il pragmatico uomo di governo (De Gasperi) –, di cui Moro sarebbe la sintesi. Innanzitutto perché la dicotomia non funziona: Dossetti fu anche un uomo capace di muoversi in modo pragmatico ed efficace e De Gasperi un politico in grado di “pensare” la politica. Semmai, si può affermare in linea generale che in Moro la sensibilità sociale, il riconoscimento dell’importanza del mondo del lavoro, l’interpretazione della moderna società di massa hanno diversi punti di contatto con l’approccio dossettiano, mentre la ricerca di elementi di mediazione, l’abilità nel gestire le diverse posizioni e l’esercizio di un’efficace funzione direttiva rappresentano aspetti vicini alla personalità degasperiana. Al di là di queste considerazioni assai generali, va riconosciuto che Moro espresse una propria peculiare visione della politica e delle azioni ad essa legate. 

L’attenzione al divenire della storia, ai processi sociali, ai cambiamenti di una modernità complessa, difficile da schematizzare, la consapevolezza dei compiti ardui di una classe dirigente chiamata a governare questi problematici processi, costituivano la premessa al suo pensare e agire la politica. Un esempio significativo fu il Sessantotto. Di tutti i leader della DC, ma anche degli altri partiti, tanto al governo quanto all’opposizione, Moro fu uno dei pochi in grado di cogliere in profondità le radicali novità che andavano emergendo, il travaglio – per usare le sue parole – di un’umanità nuova. Non vi era solo la questione universitaria o scolastica, non solamente quella operaia e sindacale o ancora lo scontro generazionale o di genere che sarebbe presto emerso. Si trattava di un sommovimento che scompaginava la realtà nel suo complesso, che poneva nuove urgenti domande, che metteva in discussione tutti gli assetti esistenti tanto sul piano istituzionale nazionale quanto su quello ideologico internazionale della guerra fredda. 

Queste novità andavano comprese, analizzate per poi fornire risposte adeguate. La principale preoccupazione di Moro era costituita dalla fragilità degli istituti della democrazia rappresentativa, la cui difesa doveva essere un dovere inderogabile della classe dirigente. Ancora una volta, appariva decisiva la questione delle masse. Nell’approccio moroteo, era cruciale – come ha sottolineato diversi anni fa il grande storico tedesco-americano George Mosse – sostenere la capacità di integrazione delle democrazie parlamentari, offrendo alle masse simboli e miti in grado di mobilitarle, inserendole attivamente nei processi democratici istituzionali. 

Sulla base di queste analisi e convinzioni, Moro aveva maturato una nuova “strategia dell’attenzione” nei confronti del Partito comunista. Le difficoltà del centrosinistra, le dinamiche politiche e sociali del contesto italiano, la preoccupazione per la fragilità delle istituzioni spingevano verso una rivisitazione del ruolo del PCI nella democrazia italiana. Per lui non si trattava di aprire una stagione di larghe intese, portando i comunisti al governo assieme la DC. La questione era più complessa e non gli sfuggivano certo le difficoltà internazionali che si frapponevano a una emancipazione e piena legittimazione del PCI. La tesi di un’apertura ai comunisti come premessa al loro ingresso al governo era una posizione polemica sostenuta dagli avversari di Moro. La sua idea era invece di inaugurare una nuova fase dei rapporti con il PCI, coinvolgendolo più attivamente, nella convinzione che esso (o alcuni suoi settori) potesse essere rappresentativo dei nuovi fermenti che andavano emergendo nella società. 

Paolo Acanfora


20 settembre 2016
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