Vite ferme sono quelle dei migranti
in attesa del riconoscimento
di protezione internazionale
che abitano le stanze e gli spazi di
un centro di seconda accoglienza
di Trento. Paolo Boccagni, docente
di Sociologia e diversità e Relazioni
interculturali all’Università di Trento,
ha frequentato questo centro
per quattro anni, visitandolo più
volte la settimana. Ha quindi potuto
conoscere da vicino le storie
delle persone che vi ha incontrato
e capire “da dentro” come si vive in
un centro di accoglienza.
Come scrive nell’appendice del
volume, l’A. ha scelto di adottare
uno stile di scrittura prettamente
narrativo, eliminando quasi del
tutto citazioni e bibliografia, con
l’intento di rivolgersi anche a un
pubblico non accademico. Questa
scelta non solo è più che riuscita,
ma soprattutto mantiene, sotto la
narrazione coinvolgente, una struttura
scientifica, una metodologia
rigorosa, lo spessore degli studi
e delle ricerche svolte. Il libro in
effetti ha il pregio di essere molto
ben scritto, scorrevole e accattivante.
Non ha in apparenza nulla
di accademico, eppure ha molto da
insegnare a chi vuole comprendere
meglio e più da vicino il mondo dei
rifugiati e dell’accoglienza.
Si intrecciano quindi tre piani di
lettura: l’osservazione partecipante,
lo studio sociologico e la dimensione
esperienziale, che si arricchiscono
a vicenda. L’A. ci porta all’interno
del centro, nelle stanze in
cui vivono due persone, che prima
non si conoscevano, provenienti da
Paesi e percorsi differenti, e che al
termine dell’accoglienza prenderanno
strade diverse.
Non viene detto da quale Paese
vengono e quali sono state le loro
storie prima di arrivare lì. Li conosciamo
nel loro stare e abitare il
centro, la stanza che li ospita. Una
vita che sembra fermarsi in attesa
del riconoscimento del loro status
e per certi versi viene come infantilizzata
dall’assistenza di cui sono
oggetto. Questo rende nebbioso il
futuro e apatico l’oggi. La stanza è
nel contempo casa, spazio intimo,
personale, e non-casa, spazio provvisorio,
con limiti fragili, poco definiti,
in cui altri possono accedere.
Noi ci troviamo a essere osservatori
con Paolo Boccagni, che è
lì e interagisce con loro con uno sguardo non giudicante, simpatetico
ma spassionato, senza la
pretesa di fornire soluzioni. Questa
sensazione è resa ancor più forte
dalla suddivisione fatta dall’A. in
cinque sezioni corrispondenti ai
cinque sensi.
La vista esplora il visibile, così
come il non-visibile, perché tenuto
per sé o ignorato in particolare da
chi vive fuori dal centro. L’udito ci
rinvia alla colonna sonora di voci,
musiche, programmi televisivi, e
così via, a cui si contrappone il
silenzio delle persone e delle cose
non dette. Il gusto, che rievoca nei
cibi sapori e stili di vita dei Paesi
di provenienza. Inoltre, mangiare
insieme è occasione di convivialità
e ospitalità. Tutto questo è rassicurante,
fa sentire la persona migrante
un po’ meno fuori posto.
L’odorato viene incontro al
visitatore e dà, scrive Boccagni,
«un senso di chiuso, stantio,
ammuffito» (p. 187), di uno spazio
chiuso su sé stesso. Vi sono
peraltro gli odori legati a chi vi
abita, familiari o fastidiosi nella
misura in cui vengono vissuti
come propri o come portati
da altri sconosciuti. Infine,
c’è il tatto. È quello che
porta con sé la «materialità
del presente»
(p. 227) ed è quello
più penalizzato sia
dalla migrazione che
trasforma gli abbracci
e la vicinanza con
le persone care in
videochiamate, sia dai
limiti imposti dalla pandemia
di COVID-19, che
caratterizza gli anni cui fa
riferimento il libro.
Raccontare le stanze del centro
di accoglienza e coloro che ci vivono
è un’opzione di senso, come
scrive l’A. stesso, che porta con
sé un’importante opportunità per
conoscere da un punto di vista
sociologico e accademico un mondo
molto distante o comunque ai
margini di quello in cui la maggior
parte di noi vive. Conoscere per
capire ed essere più vicini a chi è
spesso confinato nelle zone d’ombra
delle nostre città e della nostra
società. La conoscenza si conferma
ancora una volta il primo passo
verso una reale accoglienza.
Si tratta quindi di un libro di
grande interesse, per un pubblico
generalista, ma soprattutto per chi
lavora nell’accoglienza e nei servizi
sociali, fa volontariato, vuole accostarsi
alla questione dei rifugiati
senza ideologismi.