Il 2 marzo scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura) e 14 (diritto alla non discriminazione) della Convenzione europea. E ciò perché la signora Elisaveta Talpis, cittadina moldava residente in Italia, non ha ricevuto adeguata protezione dalle forze dell’ordine e dalle autorità italiane contro il marito violento che ella aveva più volte denunziato e che finì nel novembre del 2013 per uccidere il loro figlio diciannovenne, attentando anche alla vita della moglie.
L’inerzia delle autorità, alle quali più volte la signora Talpis si era rivolta per chiedere aiuto e protezione senza ottenere reali garanzie, avrebbe così portato alla violazione da parte dell’Italia dell’articolo 2 della Convenzione perché la vita della donna fu realmente più volte in pericolo a seguito dei numerosi maltrattamenti e soprattutto nella notte in cui il marito uccise il figlio e ferì gravemente anche lei.
La mancata protezione avverso i maltrattamenti ha determinato anche la violazione dell’articolo 3 che vieta i trattamenti disumani e degradanti (in sostanza la tortura) e l’intera vicenda si è poi risolta anche in una violazione dell’articolo 14 che vieta le discriminazioni, in quanto la violenza di genere è intrinsecamente discriminatoria.
La decisione ha suscitato un vero e proprio vespaio di polemiche anche politiche. Le autorità la cui inerzia ha determinato la condanna dell’Italia (ad un risarcimento di 30.000 euro) si difendono adducendo l’atteggiamento ondivago della donna che avrebbe cercato di recuperare la pace familiare anche attraverso la rimessione della querela. La Corte però ha ravvisato gli estremi delle violazioni nel complessivo atteggiamento passivo e dilatorio delle autorità stesse.
Se la sentenza desta interesse (ma non meraviglia) per la fermezza della condanna (ma l’Italia può ancora chiedere un secondo grado di giudizio), una parola di commento va dedicata a nostro parere al complessivo atteggiamento nei confronti della violenza domestica, specie contro le donne. È dura a morire, evidentemente, l’idea preconcetta secondo la quale la pace familiare sarebbe un fatto privato, che l’ordinamento giuridico, e per esso i tutori dell’ordine, potrebbe tranquillamente ignorare.
Insomma i diritti andrebbero garantiti contro violazioni nello spazio pubblico, mentre lo spazio privato resterebbe sottratto allo scrutinio e al controllo delle autorità. Così non è a termini di legge (nazionale ed europea) ovviamente, ma evidentemente operano ancora condizionamenti culturali che sono più diffusi di quanto si pensi.