Jawdat Said, classe 1931 e origini nel Golan siriano, è definito – non a caso – “il Gandhi dei musulmani”. Vie islamiche alla nonviolenza è il suo primo testo tradotto in italiano e presenta, con rigorosa lucidità, l’opzione del pacifismo come quella più coerente con il messaggio coranico. Il fondamento di questa tesi viene ravvisato in Corano 5,28, laddove Abele reagisce con parole ferme al fratello Caino che poi lo ucciderà: «E se stenderai la mano contro di me per uccidermi io non stenderò la mano su di te per ucciderti perché ho paura di Dio, il Signore dei mondi».
Per l’A., tutti i profeti nel Corano si comportano esattamente come il figlio di Adamo, mostrando «tenacia a pazientare di fronte alle offese altrui senza rispondere all’offesa con l’offesa» (p. 12) e rifiutandosi di intraprendere azioni violente. Coerentemente, «nell’islam non si arriva a governare con la forza, né all’inizio né una volta ottenuto il successo, né ora né in futuro, e chi vuole arrivare a governare si deve sforzare di convincere le persone a costruire una comunità ben guidata che scelga il suo governo spontaneamente» (p. 19). Nel Corano si legge: «Non vi è costrizione nella religione» (Cor. 2,256) e questo, per Jawdat Said, significa che nell’islam «la religione non si ordina con la forza dei muscoli o delle armi, o con la distruzione, bensì con la forza delle idee e con la rettitudine, aiutando gli altri a liberarsi dall’ingiustizia e dalla costrizione» (p. 21), proteggendo il dissidente e contribuendo a creare un clima di libertà di pensiero senza coercizione.
Allora perché si è diffuso il metodo del fratello assassino? Secondo l’A., alla base della violenza vi è sempre una “sconfitta ideologica”: coloro che praticano la costrizione nella religione «non fanno alcun assegnamento sugli uomini, non credono che se le persone fossero lasciate libere di valutare le idee, potrebbero anche scegliere le loro» (p. 26). Per questo, l’unica strada percorribile si fonda sulla mancata reazione violenta alla violenza dell’aggressione. Di più: bisogna «lasciare che le idee sbagliate muoiano di morte naturale. Se non abbiamo capito questo, significa che non abbiamo idee che possano competere con la storia. L’errore ha il diritto di vivere: se non gli do il diritto di vivere, nemmeno io avrò lo stesso diritto» (pp. 37-38).
In un volumetto di esili dimensioni, Jawdat Said offre tutta la potenza di una visione in grado di rispondere a esigenze immediate, proponendo una lettura della nonviolenza che affida alla religione un’autentica missione di pace.