Vi presento Toni Erdmann

Maren Ade
Germania, Austria 2016, Commedia, Durata: 162 min.
Scheda di: 
Fascicolo: aprile 2017

La trama

Il 65enne Winfried, insegnante di musica con la propensione per gli scherzi, decide di fare una visita a sorpresa alla figlia Ines, consulente aziendale in carriera che vive a Bucarest. L’incontro tra i due si rivela conflittuale ma Winfried, invece di andarsene, decide di sorprendere la figlia trasformandosi nell’alter ego Toni Erdmann, un uomo coi denti storti e un abbigliamento bizzarro, che si presenta come coach professionale.


Una commedia tedesca di quasi tre ore. Difficile immaginare una combinazione di termini altrettanto singolare e apparentemente conflittuale, dato che, per la vulgata generale, la comicità mal si sposerebbe con la cultura teutonica, oltre che con la lunga durata. Eppure, forse proprio in virtù di questa somma di peculiarità, Vi presento Toni Erdmann – in concorso al Festival di Cannes del 2016 e candidato agli Oscar come miglior film in lingua straniera – si presta come poche altre pellicole di questi ultimi anni a raccontare la complessità della nostra epoca e le contraddizioni che la attraversano. Il film della regista Maren Ade è infatti un’analisi senza veli della realtà odierna del mondo del lavoro e, nello specifico, di quel terziario avanzato modellato e normalizzato dalle regole imposte dalle multinazionali. 

Ines, la protagonista del film, appartiene proprio a questo universo: è un’ambiziosa manager inviata a Bucarest con il compito di chiudere un’importante trattativa, una missione che, una volta portata a termine, potrebbe determinare un elevato numero di esuberi. Prima di incontrare Ines, però, la regista ci fa conoscere suo padre Winfried: tanto la manager è meticolosa, efficiente e spietatamente competitiva, quanto il padre è ironico e apparentemente privo di affanni, quasi incapace di prendersi sul serio. Il divario tra i due è talmente ampio che Winfried, alla morte della sua unica compagnia domestica, il cane Willy, e dopo aver perso il suo lavoro di insegnante di musica, decide di raggiungere Ines in Romania, senza preavviso. La presenza dell’uomo diviene ben presto un fastidio e una fonte di imbarazzo per la figlia, totalmente dedita al proprio lavoro, al punto che, dopo una gaffe di troppo in un incontro pubblico, Winfried decide di togliere il disturbo per la gioia della protagonista. In realtà, però, il padre ha solo finto di andarsene, come capirà Ines nel momento in cui farà la conoscenza dell’improbabile “Toni Erdmann”, improvvisato coach per professionisti.

La regista Maren Ade, artefice di un’operazione inconsueta per i temi trattati e per la precisione chirurgica con cui sono definiti, non vuole che il pubblico assuma necessariamente il punto di vista di Ines o quello di Winfried, immedesimandosi con i personaggi. Anzi, Ade ci obbliga per 162 minuti a osservare, senza poter intervenire, una situazione al contempo ordinaria e sui generis, che può appartenere alla nostra quotidianità lavorativa, ma su cui è raro si soffermi la macchina da presa. La comprensione e la riproduzione delle dinamiche umane in gioco in un ambiente come quello della consulenza aziendale è prodigioso, come se Ade provenisse da decenni di militanza in quell’ambiente. La tensione e la rigidità di Ines, così come l’apparente rilassatezza nei momenti di “convivialità” con i colleghi – poco più che sessioni straordinarie di un lavoro che sostanzialmente non ha interruzioni – sono riprodotte attraverso dettagli e sfumature quasi impercettibili. Si veda, ad esempio, la scena paradossale della festa organizzata da Ines nella sua camera d’albergo. A causa di una zip inceppata, la donna finisce per aprire la porta svestita. A quel punto, lo spirito goliardico del padre prende il sopravvento su di lei, tanto da spingerla a esortare anche i colleghi a svestirsi, come nuova forma di team building. L’effetto comico è accentuato dalla reazione del suo superiore, che, pur di non contraddire la nuova regola aziendale, si spoglia e prosegue a chiacchierare come se nulla fosse.

Tra i possibili termini di paragone, il Fantozzi di Paolo Villaggio (che aveva effettivamente lavorato in una realtà simile a quella immortalata nel film di Luciano Salce) appare il più vicino alla comicità corrosiva di Vi presento Toni Erdmann: sono ambedue affreschi corali del mondo del lavoro e della possibile alienazione che può suscitare, ambedue inclini a sottolineare l’assurdo insito nell’analisi del quotidiano. Ma dove Villaggio sceglieva di raccontare una tragedia umana sotto forma di farsa, così da poter parlare a tutti senza portare a un totale riconoscimento nel personaggio, Ade opta per una comicità meno fragorosa ed evita, o meglio maschera, la deriva surreale. 

Ma il film è anche un’indagine su una famiglia che ha perso la capacità di comunicare, nella quale si è creato un baratro apparentemente incolmabile tra un padre e una figlia. Ines è concentrata totalmente sulla propria carriera, Winfried, invece, evita da anni di prendersi sul serio, trascorrendo un’esistenza volutamente ai margini. Sarà proprio quest’ultimo a compiere un passo verso la figlia, utilizzando i mezzi più inconsueti per stabilire una nuova connessione: regali improbabili per il compleanno, travestimenti e scherzi di ogni tipo. Perseverando, nonostante l’evidente disprezzo di Ines nei suoi confronti, e cancellando ogni forma di orgoglio, soprattutto nel momento in cui deciderà di restare a Bucarest. Vi presento Toni Erdmann è allora il racconto di due ostinazioni contrapposte: Ines sembra resistere a ogni tentativo del padre di minare il suo ecosistema, fino a invitarlo consapevolmente a sniffare cocaina, passaggio “obbligato” per i momenti di pseudo-decompressione lavorativa del perfetto consulente. Ma Winfried non è da meno nella capacità di incassare rifiuti in serie, superare situazioni di profondo disagio e rischiare di compromettere il lavoro della figlia, pur di perseguire la sua operazione di maieutica dei sentimenti. Per potersi avvicinare a Ines, per stabilire un contatto con lei, Winfried deve infatti travestirsi e camuffare la propria identità. In base a un curioso processo inverso, l’accumulo di maschere del padre – da una dentiera finta a un costume kureki del folklore bulgaro – fa sì che Ines si spogli sempre più delle proprie maschere sociali – in senso metaforico – e infine dei propri indumenti – in quello reale. 

L’inseguimento tra Winfried e Ines, la disperata corsa cieca condotta dall’uno verso l’altra in un contesto impersonale e ricco di ipocrisia, interroga lo spettatore sul mondo globalizzato, prigioniero di vincoli che corrodono gli affetti primari. Luogo ideale di questa desertificazione degli affetti è Bucarest, sottoposta alla trasformazione voluta dalla bulimia di una Germania, e quindi di un’Europa, ormai incapace di accettare l’esistenza di realtà locali. La Bucarest che intravediamo, tra un ricevimento di lavoro e l’altro, è un territorio di conquista delle multinazionali, il ring ideale per la competitività del turbocapitalismo. Priva di passato, resettata culturalmente da decenni di feroce dittatura, oggi la capitale rumena si configura attraverso anonimi palazzi di lusso, che suggeriscono l’idea di un paradiso del lavoro, in cui otium e negotium sono due facce dello stesso ipocrita squallore. Tutto ciò che è vero e doloroso è rimosso, come le baracche che Ines vede dalla finestra del suo ufficio.

Quel che è stato tra Winfried e Ines, prima che l’abisso li dividesse, lo possiamo solo intuire: molti dei segni che si scambiano, o dei giochi che implicitamente condividono, appartengono presumibilmente al loro passato o a qualche segreto dell’intimità familiare, ma non ha importanza comprendere ogni dettaglio. A prevalere è il quadro generale, la traiettoria etica compiuta dai personaggi verso una conclusione ermetica, fatta di ellissi e silenzi. Come chiarisce l’irresistibile ultimo segmento, Vi presento Toni Erdmann è un film guidato dal proprio epilogo, dal raggiungimento di uno scopo e dalla “riparazione” di un algido e frettoloso commiato, reso ancor più doloroso dal fatto di poter essere l’ultimo. Lo spettro della morte è sempre presente, silenziosamente, nell’ombra; un sinistro monito sull’insensatezza di una vita quando predominano ambizione e affanni.


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