V13

Emmanuel Carrère
Adelphi, Milano 2023
Scheda di: 
Fascicolo: maggio 2023

Due ore, trentotto minuti e quarantasette secondi. È il tempo che passa tra l’inizio dell’attacco del commando di terroristi al Bataclan, la sera del 13 novembre 2015, e l’irruzione finale della polizia che mette fine alla mattanza. Nel frattempo, due iracheni si fanno saltare fuori dallo Stade de France, durante la partita Germania-Francia. Solo per un caso, arrivano tardi e non riescono a entrare nello stadio: strage evitata per un soffio, qui muoiono soltanto gli attentatori. Invece i terroristi seminano morte e devastazione tra i giovani clienti seduti nei déhors dei locali parigini del XVIII arrondissement. Sono 130 i morti di quella serata. Sono 1.800 circa invece le vittime che si costituiscono parte civile nel processo per quegli attentati, incominciato l’8 luglio 2021 e durato nove mesi, di cui lo scrittore e giornalista francese Emmanuel Carrère segue lo svolgimento giorno per giorno, fornendone la cronaca giudiziaria al settimanale L’Observateur.

Nasce da questi articoli V13, il racconto completo di questo maxiprocesso, diviso in tre sezioni – le vittime, gli imputati, la Corte – che offrono una panoramica completa del punto di vista di ciascuna delle parti coinvolte, in una sorta di rappresentazione catartica dell’evento che, se non può riportare in vita nessuno, può almeno restituire giustizia. E la giustizia è proprio uno dei motivi che spingono l’A. a seguire questo evento: un processo «che sarà qualcosa di enorme, di inedito»; un secondo motivo è il suo interesse verso le religioni e le loro mutazioni patologiche, ma il motivo fondamentale è che «centinaia di esseri umani accomunati dal fatto di aver vissuto la notte del 13 novembre 2015, di esserle sopravvissuti o di essere sopravvissuti a quelli che amavano, si presenteranno davanti a noi e parleranno. Un giorno dopo l’altro, ascolteremo esperienze estreme di morte e di vita e penso che, fra il momento in cui entreremo in quell’aula di tribunale e quello in cui ne usciremo, qualcosa in tutti noi sarà cambiato» (p. 14).

Alla cronaca serrata corrisponde una lettura altrettanto coinvolgente, che ci porta dalla Parigi insanguinata di quella notte tremenda al cuore del jihadismo europeo, nel quartiere Moleenbeek di Bruxelles dove prendono forma i piani terroristici, per arrivare in Siria e in Turchia, all’interno dello Stato islamico e da qui fare ritorno in Francia e nell’aula del maxiprocesso. Una sorta di “rito collettivo”, come lo definisce lo stesso A., che a prescindere dal suo esito svolge una funzione precisa: le parti civili hanno potuto “deporre” la loro sofferenza, riportandone giustizia.

Ai volti delle vittime si affiancano quelli degli imputati, dalle identità povere e intercambiabili, racconta Carrère durante la presentazione del libro a Milano, il 27 marzo scorso, e che – va tenuto sempre presente – non sono gli assassini di quella sera, che si sono fatti saltare in aria o sono stati uccisi, ma solo figure di secondo piano. Emerge quindi un passaggio fondamentale sulla amministrazione della giustizia, che in tutto questo non può essere dimenticato: gli imputati del V13, pur coinvolti a vari livelli negli attentati, hanno ricevuto il massimo della pena, come se fossero stati gli esecutori materiali delle stragi. Dice ancora Carrère alla presentazione del libro: «Come se fossero stati processati più per quello che avrebbero potuto fare che per quello che hanno fatto davvero, in una sorta di applicazione di una giustizia preventiva, che però non è il diritto». A ricordarci che sì, certo, così è andata e non poteva essere altrimenti: tutti gli imputati tranne uno vengono condannati per associazione a delinquere con finalità di terrorismo; ma se fossero stati presenti gli assassini reali, la condanna di questi imputati sarebbe stata diversa.

Anche noi usciamo cambiati da questa lettura, che ci porta a immedesimarci nelle vittime, consapevoli che ciascuno di noi avrebbe potuto essere a teatro o seduto fuori da un locale a godersi una serata in compagnia con gli amici, ma anche consapevoli di essere entrati nell’universo degli imputati, delle loro distorte e spesso incompresibili ragioni, che comunque al processo hanno avuto spazio di esprimersi, e di aver assistito al difficile lavoro della macchina giudiziaria, tra avvocati, pubblica accusa, corte e giuria, che sono riusciti a fare – dice ancora Carrère – un “bel processo”, una sorta di rappresentazione teatrale alla quale si è assistito, con la differenza che qui il copione non era scritto e nessuno sapeva quale sarebbe stato l’esito. Che giustizia sia stata fatta, in un certo senso, resta da dimostrare.

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