Una nuova prosperità
Quattro vie per una crescita integrale
Mauro Magatti – Laura Gherardi
Feltrinelli, Milano 2014, pp. 198, € 18
Impegnato ormai da alcuni anni a riflettere sulle sorti del capitalismo (cfr Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista e La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto), in quest’ultimo volume il sociologo Mauro Magatti prosegue la sua ricerca insieme alla collega Laura Gherardi. I due autori esplorano il volto che il capitalismo ha saputo assumere «a seguito della crisi finanziaria, economica, sociale ed energetica del 2008» (p. 10) e si interrogano sui suoi (eventuali) destini prefigurando una sperata “nuova prosperità”, che sappia coniugare la ripresa della crescita con un rinnovato fondamento cultural-ideale dell’agire umano.
Il titolo del primo capitolo – «Gli spiriti del capitalismo» – espone già la principale categoria interpretativa: il capitalismo, nel tempo, diviene. Come osservano i sociologi francesi Luc Boltanski ed Ève Chiapello, «facendo propri i valori in nome dei quali è criticato, il capitalismo si rilegittima, si trasforma e si rilancia. Silenzia la critica e, riattivando il desiderio, motiva le persone a partecipare al circuito economico» (p. 23). In effetti, esso ha a che fare con le cose dure o inevitabili della vita (produzione e consumo) e, al tempo stesso, col desiderio umano inteso come unione tra una qual certa forza aggressiva (alcuni parlerebbero di libido) e una dimensione che sconfina nel simbolico e nell’ideale. Perciò il capitalismo non è statico, ma diviene nelle tecniche produttive e nel suo “spirito”, giacché a trasformarsi è anche e proprio questo “spirito”, ossia «l’ideologia che sostiene, giustifica e stimola l’impegno delle persone alla produzione e al consumo» (p. 24). Vi fu il capitalismo della prima industrializzazione ottocentesca (liberazione dalla antica dipendenza di tipo agrario e personale); fece seguito quello novecentesco (uguaglianza di tutti entro il quadro giuridico dello Stato-nazione, nascita dello Stato sociale, liberazione dall’incertezza e dal bisogno, consumo di massa); venne infine il capitalismo dei nostri anni. In quest’ultimo stadio, le nuove tecniche informatiche si uniscono a un ideale di scelta individuale che ignora il mondo.
In ciascuna di queste fasi è centrale la parola “liberazione”: essa sembra specificare la già citata nozione di desiderio. «Combinandosi con le dimensioni materiali e istituzionali, lo spirito del capitalismo definisce una “economia psichica” che costituisce la grammatica combinatoria tra individuo e sistema, tra psiche e materialità, tra cultura e struttura. Anche se declinata secondo accezioni assai diverse nelle varie fasi storiche, la libertà è sempre stata il valore fondativo dell’assiologia del capitalismo. Incrociandosi con i destini della modernità, questa formazione economico-sociale è stata capace di mettere a profitto le diverse domande di liberazione avanzate dalle società occidentali nel corso degli ultimi secoli» (p. 17). Di liberazione aveva già parlato il sociologo e filosofo Max Weber (1864-1920) rispetto alle tradizionali forme di dipendenza (asservimento alla terra e controllo sociale delle piccole comunità). Ma questa liberazione, realizzata dal capitalismo e dall’urbanizzazione, fu pagata con l’assoggettamento alla impersonale catena di montaggio.
Preso atto di questi elementi del capitalismo, le analisi del libro sono guidate da una domanda ermeneutica estremamente esigente: quali sono i valori che sostengono e legittimano l’impegno personale e che sarebbero lo “spirito del capitalismo” in questa determinata fase storica? Dobbiamo sempre ricordare che la realtà viva di tale impegno va colta nell’attività produttiva di una società, non nei discorsi di questo o quel personaggio. La risposta a questa domanda viene dalla considerazione delle vicende degli ultimi anni.
Finora la storia del capitalismo pareva unire assieme la critica e il suo superamento, lati negativi e nuovi lati positivi sempre riaffioranti. Pare però che a un certo punto questa logica si sia arrestata: nell’ultimo capitalismo, quello entrato in crisi sul piano strutturale e simbolico nel 2008, affiora un grave limite antropologico ed etico. Esso fa riferimento «a un’assiologia del tutto diversa da quella precedente per la concezione che propone dell’Io, della libertà e del legame» (p. 36): nasce il capitalismo “tecno-nichilista”. Già nei movimenti post-Sessantotto emergeva una nozione “estetica” dell’io e della sua ormai solitaria libertà: ogni forma di legame con altri e con il territorio portatore di una tradizione era avvertita soltanto come limite doloroso. L’avvento di Internet (che apre alla istantanea e individualistica mondialità di ciascuno con ciascun altro) accentua e stabilizza la novità. Nasce un «sistema tecnico planetario [che] si è, poi, combinato con “lo spazio estetico mediatizzato” – di cui Internet è l’emblema – i cui tratti costitutivi sono la sensorialità, la spettacolarizzazione e l’equivalenza dei significati […] Nel capitalismo tecno-nichilista, il potere della tecnica, ampliando gli spazi dell’azione individuale, si combina con una mediatizzazione sempre più pervasiva nel quadro di una progressiva perdita di senso condiviso» (p. 35). La vita contemporanea si fonda su due “infrastrutture”. Una è «il sistema tecnico planetario», che è un «quadro rigido» dal quale siamo costretti a «performance sempre più elevate» – lo si noti – «sia quando lavoriamo, sia quando consumiamo» (p. 39). La seconda è puramente emotiva, poiché nel già citato «spazio estetico mediatizzato» si coltiva «una soggettività emotiva e superficiale» (ivi). Da un lato vi è una iper-razionalizzazione tecnica, dall’altro una iper-soggettivizzazione. Diventano allora difficili un agire che sia «razionale rispetto al valore» e un’affettività che sia «capace di appassionarsi e prendere cura» (pp. 39-40). Si può uscire da tale situazione?
Come è sempre avvenuto nella lunga storia che stiamo esaminando, la dura necessità ha una sua funzione: il tecno-nichilismo deve fare i conti con il «vincolo delle risorse ambientali e sociali, che […] ha consumato senza preoccuparsi di rigenerarle» (p. 42). La crisi ecologica e l’apparire sulla scena economica del mondo di nuovi soggetti di gigantesca rilevanza (Cina, Brasile ecc.) pongono termine all’ultima triste stagione del capitalismo. Ne nascerà un’altra migliore? Già nell’introduzione del libro si risponde affermativamente, sia pure nel modo della fondata speranza: dei «segnali sembrano suggerire che nelle società avanzate sia presente, ancorché sottotraccia, un piano culturale emergente» (p. 12). Esso si fonderebbe su una «concezione di valore» inteso come «valore contestuale (o condiviso)» (ivi). Dovrebbe verificarsi ancora una volta quel rinnovamento di cui il capitalismo è stato capace dopo ogni sua crisi. Dal punto di vista dei consumatori, il tener conto del “contestuale” significa avvertire il rapporto tra benessere del singolo e ambiente, anche quello sociale. Dal punto di vita dei produttori (delle «aziende più innovative», p. 27), il medesimo tener conto significa non opporre più guadagno e tutela dell’ambiente, ma assumere una progettualità a più lungo termine, tale da convertire ciò che prima si avvertiva come limite in nuove opportunità.
Di «creazione di valore condiviso» hanno parlato nel 2011 gli economisti americani Michael E. Porter e Mark R. Kramer come «una crescita che sappia coniugare valore economico e valore sociale inteso, in senso ampio, come valore per le collettività» (p. 58). Il loro approccio è audace fin nella innovazione semantica: il nuovo valore economico sarà in se stesso “condiviso”. Nel passato la produzione era perseguita a spese dell’ambiente, a spese dei salariati, a spese del territorio (ci si trasferisce dove il produrre costa meno). Certamente non tutto era lecito, ma si trattava di limiti imposti dallo Stato. Ormai però è l’interesse della stessa azienda (non siamo affatto in una prospettiva di libera benevolenza) a imporre di tener conto di ciò che avviene nei tempi lunghi e nelle comunità in cui si opera. Al riguardo, gli AA. del nostro libro preferiscono parlare di “valore contestuale”, così illustrato: «per prosperare, oltre che per legittimarsi nelle condizioni poste dalla seconda globalizzazione, le imprese intuiscono che è opportuno entrare in una relazione di win-win con il contesto, con il quale scambiano valore, e con le collettività che lo popolano» (p. 60). Lo sviluppo della green economy e la produttiva collaborazione tra molti resa possibile da Internet sono un esempio del nuovo che avanza. Vi sarebbe una innovazione nella nozione stessa di bene con la nascita dei “beni relazionali”. Il godimento di tali beni «dipende da una condivisione nella reciprocità, dunque dalla relazione con altri. Non riducibili a merci, tali beni soddisfano bisogni evoluti di chi vive nelle società avanzate» (p. 63). È il caso, ad esempio, del social housing, cioè la ricerca di soluzioni abitative che valorizzino la dimensione relazionale andando oltre le concezioni novecentesche degli edifici residenziali.
La parte finale del libro espone teorie affini al contestualismo: il “convivialismo”, l’economia della “contribuzione”, la “generatività”. Tutte pongono l’accento sui tempi lunghi della nuova progettualità imprenditoriale, sulla cura per molte realtà che risultano favorevoli alla produzione proprio quando sono valutate in modo non più strumentale. Tutto si ridurrà a convertire la psicologia verticistica del manager? Si tratta piuttosto della nascita di una nuova comune attenzione: ciò che conta è l’approvazione di coloro che formano il “contesto” sociale.
Il lettore di questo libro deve affrontare un linguaggio non difficile, ma assai mobile e vario, spesso allusivo, quasi inventato lì per lì.
D’altronde, il capitalismo si presenta come una unità assai complessa: per comprenderlo si dovranno usare linguaggi diversi e accostare tra loro realtà anche disparate. In effetti, assai ampia e differenziata e sempre innovantesi è la realtà che qui si coglie in azione: la vita umana. Che nell’agire produttivo proprio essa si offra tutta intera allo sguardo è forse il messaggio ultimo del libro.
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