I vescovi europei riflettono sull’obiettivo che l’UE si è data di realizzare un’economia sociale di mercato altamente competitiva.
Il 12 gennaio 2011 la Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea (COMECE) ha reso noto un documento,
frutto di due anni di lavoro, intitolato Una comunità europea di solidarietà e di responsabilità. Dichiarazione dei vescovi della COMECE sull'obiettivo
di un'economia sociale di mercato competitiva all'interno del Trattato sull'Unione Europea
(disponibile in inglese, francese e tedesco su <www.comece.org>).
La COMECE
riunisce i rappresentanti delle Conferenze episcopali cattoliche dei
Paesi membri dell'UE, oltre a Svizzera e Croazia, e dispone di un
segretariato permanente a Bruxelles. La stesura
del documento è stata affidata alla Commissione per gli Affari sociali
della COMECE, presieduta dal card. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e
Frisinga (Germania).
Nel
quadro della missione della COMECE - accompagnare il processo politico
dell'UE, mantenere un dialogo regolare con le istituzioni europee e
incoraggiare la riflessione sui problemi
o sulle difficoltà della costruzione europea, ispirandosi
all'insegnamento sociale della Chiesa -, la Dichiarazione non intende
offrire un insegnamento ex cathedra, ma un
contributo alla costruzione di una nuova comprensione comune delle prospettive europee:
«durante questa crisi economica abbiamo creduto fosse importante
ricordare che
l'Europa è molto più dell'euro, più del crollo del sistema finanziario,
della crisi del debito sovrano e più dell'economia», ha dichiarato il
card.
Marx alla presentazione del documento.
Il punto di partenza è il
Trattato sull'UE, che, in seguito alle modifiche apportate con il
Trattato di Lisbona (2007), specifica
che l'Europa si pone l'obiettivo di essere un'economia sociale di mercato fortemente competitiva.
Questa espressione indica una concezione politica che associa «il
principio della libertà del mercato e lo strumento di un'economia
competitiva al principio di solidarietà e ai meccanismi della giustizia
sociale» (Dichiarazione,
n. 1), cioè una protezione sociale ampia garantita dallo Stato. Si
tratta di un orizzonte di grande importanza per l'Europa, in particolare
in questo momento di crisi, al
quale - nota il documento - occorre ancora dare sostanza. In
particolare, l'economia sociale di mercato è un concetto aperto a molte
interpretazioni diverse. In questo quadro,
l'intervento della COMECE intende contribuire al più ampio dibattito
sugli obiettivi dell'idea europea, che non può limitarsi a crescita
economica e bilanci in pareggio.
Nelle pagine che seguono proveremo a illuminare i termini di questo
dibattito, in vista di una presentazione e di una migliore comprensione
della Dichiarazione della COMECE.
1. I riferimenti del dibattito
La formula "economia sociale di mercato fortemente competitiva" viene dall'art. 3.3 del Trattato sull'Unione Europea:
«L'Unione instaura un mercato interno.
Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una
crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su
un'economia sociale di mercato fortemente
competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e
su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità
dell'ambiente. Essa promuove il progresso
scientifico e tecnologico».
L'espressione "economia sociale di
mercato" è stata elaborata nei Paesi di lingua tedesca, ma è entrata
anche nella
tradizione costituzionale di altre nazioni europee. Nasce dalla
riflessione di economisti e giuristi della scuola ordoliberale di
Friburgo (1930-1950) e trova applicazione politica
nella Germania occidentale del dopoguerra durante il cancellierato
(1949-1963) di Konrad Adenauer, grazie a Ludwig Erhard, ministro
dell'Economia, e ad Alfred Müller-Armack,
direttore del Dipartimento delle politiche economiche del Ministero.
Artefici della ripresa tedesca, contribuirono a porre le basi
economiche, culturali e istituzionali dell'UE
lavorando con Alcide De Gasperi e Robert Schuman. La scuola di Friburgo
afferma la centralità del mercato, senza però farne un assoluto. A
riguardo l'economista
Walter Eucken (1891-1950), padre dell'ordoliberalismo, scrive:
«L'economia deve servire agli uomini viventi e a quelli futuri e deve
aiutarli per l'attuazione delle loro più
importati determinazioni. [...] Essa ha bisogno di un ordine giuridico
garantito e di una solida base morale». Nel 1958, Wilhelm Röpke
(1899-1966), un altro esponente
della scuola di Friburgo, affermava: «l'economia di mercato non è tutto; essa deve essere sorretta da un ordinamento generale, che non solo corregga con le leggi
le imperfezioni e le asprezze della libertà economica, ma assicuri all'uomo un'esistenza consona alla sua natura» (RÖPKE W., Al di là dell'offerta e
della domanda. Verso un'economia umana, Edizioni di "Via aperta", Varese 1965, 17).
Sono queste le basi di un concetto che l'UE assume a proprio fondamento e su
cui impernia la "Strategia Europa 2020" per il rilancio della propria economia (cfr COMMISSIONE EUROPEA, Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente,
sostenibile e inclusiva, 3 marzo 2010, COM[2010] 2020 definitivo).
Questa strategia, che delinea il quadro dell'economia di mercato sociale
europea per il XXI secolo, ruota
attorno a tre priorità che si rafforzano a vicenda: «crescita
intelligente: sviluppare un'economia basata sulla conoscenza e
sull'innovazione; crescita sostenibile:
promuovere un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse,
più verde e più competitiva; crescita inclusiva: promuovere un'economia
con un alto tasso
di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale»
(COMMISSIONE EUROPEA, Europa 2020, cit., 5). Queste priorità si
concretizzano in obiettivi da
raggiungere entro il 2020 in materia di occupazione, innovazione,
istruzione, integrazione sociale e clima/energia, che ciascuno Stato
declina all'interno delle proprie politiche
nazionali.
Al di là del dibattito tecnico sulle misure per
raggiungere questi obiettivi, per quanto di fondamentale importanza, ci
sembra che questa prospettiva di rilancio
dell'economia e della società europea si fondi su alcuni punti
essenziali.
Il primo è una visione più completa del mercato unico
la cui costruzione
è stata per molti decenni al centro dell'azione delle istituzioni
europee, tanto da apparire ad alcuni la loro unica preoccupazione: «Il
mercato unico non costituisce
in sé un obiettivo. È uno strumento al servizio delle altre politiche.
Se il mercato unico funziona correttamente tutte le azioni pubbliche e
private e le risposte
apportate alle sfide della crescita, della coesione sociale,
dell'occupazione, della sicurezza e dei cambiamenti climatici avranno
una maggiore forza per raggiungere i risultati
che si prefiggono. [...] In questo contesto è importante tenere a mente
che il successo del modello europeo si basa sulla sua capacità di associare prestazione
economica e giustizia sociale e di mobilitare, per la realizzazione
di questo obiettivo, l'insieme dei protagonisti dell'economia e dei
partner sociali» (COMMISSIONE EUROPEA,
Verso un atto per il mercato unico. Per un'economia sociale di
mercato altamente competitiva. 50 proposte per lavorare, intraprendere e
commerciare insieme in modo più
adeguato, 27 ottobre 2010, COM[2010] 608 definitivo, 4 s.). Ci
sembra interessante sottolineare questa posizione ufficiale della
Commissione, che in qualche modo riconosce che
oggi, complice la crisi, il mercato unico, per quanto indispensabile, è
diventato altamente impopolare, in quanto si è diffusa la percezione che
l'enfasi sulle liberalizzazioni
sia andata a scapito della tutela dei diritti sociali. L'economia
sociale di mercato rappresenta una via di uscita da questa impasse, in
quanto suggerisce una strategia che mira
«a coordinare più efficacemente l'interazione fra diritti sociali e libertà economiche all'interno del sistema UE» (MONTI M., Una nuova strategia
per il mercato unico. Al servizio dell'economia e della società europea, 9 maggio 2010, 76). Da opportunità per alcuni, il mercato unico può diventare così
il "bene comune" di tutti gli attori economici europei.
In questa chiave ci sembra assumere un nuovo significato anche l'attributo della competitività
con cui l'UE specifica il profilo dell'economia sociale. Certamente
riguarda la concorrenza all'interno del mercato europeo, a garanzia
della sua efficienza: «La concorrenza
di mercato può essere vista, e va vista se vogliamo comprenderla nella
sua realtà più vera, come una gara per innovare: chi innova cresce e
vive, chi non innova
resta indietro e esce dal gioco economico e civile» (BRUNI L., L'imprenditore civile e la virtù dell'innovazione, 13 ottobre 2011, in <www.generativita.it>).
Ma soprattutto deve connotare la performance complessiva del sistema UE
nei confronti degli altri attori economici globali, a partire da Stati
Uniti e Cina. Non si tratta
però - ci sembra - soltanto di un miglioramento della competitività
commerciale, in vista del mantenimento o del miglioramento delle nostre
quote di mercato. A livello
globale, la competizione è soprattutto fra modelli sociali, e
quello europeo, che pone particolare enfasi su coesione e sicurezza
sociale, deve confrontarsi con quello
americano, che declina la libertà economica in chiave più
individualista, e con quello cinese, che coniuga una crescita tumultuosa
dell'economia con il permanere di
forti limitazioni dei diritti civili e sociali. Come si vede, in questa
competizione sono in gioco le conquiste sociali che contraddistinguono
l'Europa.
2. La proposta dei vescovi europei
Con questa prospettiva entra in dialogo la Dichiarazione della
COMECE, che si fonda sull'assunto che «fin dall'inizio il progetto di
unificazione dell'Europa è stato
più che meramente economico; è stato, ed è, un progetto politico e morale,
che dovrebbe servire la giustizia e la pace in Europa e nel mondo» (n.
26): è questo l'obiettivo della promozione di un'economia sociale di
mercato altamente competitiva, in cui «la competizione è il mezzo e il
"sociale"
il fine» (n. 6).
Il documento ne illumina i fondamenti antropologici radicati nella tradizione culturale e spirituale europea e ricorda i grandi principi
della dottrina sociale, ma articola anche una serie di misure concrete
per darvi attuazione: indicazioni per l'UE e per gli Stati membri, per
gli imprenditori e i consumatori,
per lavoratori e sindacati, come pure per le Chiese, le comunità
religiose, le università e le scuole, invitando a tenere conto delle
future generazioni e dei Paesi
più deboli da cui l'Europa, grazie all'immigrazione, trae non poche
risorse. A titolo di esempio, trovano spazio nel documento la proposta
di una tassa sulle transazioni
finanziarie (n. 9) o il suggerimento di criteri per la limitazione dei
compensi per i top manager (n. 8) e di precauzioni da adottare nella
normativa europea sui contratti (n. 20),
o ancora l'appello a mantenere la promessa di destinare agli aiuti ai
Paesi in via di sviluppo lo 0,7% del Prodotto interno lordo (n. 25) o il
sostegno alle proposte vaticane per
l'istituzione di forme di autorità politica di ampiezza mondiale (n.
25).
Si tratta di misure oggetto di un vivace dibattito, sulla cui
efficacia è legittimo dare
valutazioni tecniche diverse. Non le esaminiamo in maggiore dettaglio
perché non riteniamo che sia questo l'aspetto più stimolante del
documento, che va rintracciato
invece nella illuminazione delle basi culturali del concetto di economia sociale di mercato,
che consente di ampliare lo sguardo rispetto agli orizzonti di pensiero
con cui
la prospettiva economica e quella sociale vengono pensate, superando
approcci ideologici o tecnicistici che, come dimostra la fatica di
uscire dalla crisi, oggi non hanno più
presa. I vescovi non propongono modelli di società fatti e finiti, né
definiscono i dettagli delle misure pratiche che suggeriscono, ma
aiutano a mettere in discussione
abitudini di pensiero.
Gli spunti che vi abbiamo rintracciato in
questa direzione si situano nell'orizzonte che la Dichiarazione propone
fin dal suo titolo: il legame tra solidarietà
e responsabilità come chiave per il futuro dell'UE: «È innegabile
che non ci sarà una economia sociale di mercato in Europa senza una
condotta coscienziosa,
affidabile e responsabile di tutti gli attori della sfera economica» (n.
8). La solidarietà abbraccia per definizione tutti i membri di una
comunità: affermare
che la responsabilità ha la medesima estensione significa rimettere al
centro dell'attenzione l'articolazione fra i livelli e l'importanza del
contributo di ciascuno. Ne
seguono conseguenze in tre ambiti.
a) Oltre l'opposizione tra Stato e privato
Il percorso di evoluzione del welfare europeo è segnato storicamente
dall'opposizione di due visioni. Da una parte l'enfasi sul ruolo e la responsabilità dello
Stato, intrecciata con una non sempre corretta cultura dei diritti
che ha fatto esplodere le istanze di protezione, ha prodotto il
gigantismo statale e la burocratizzazione
del sistema, che ora sta crollando per le difficoltà delle finanze
pubbliche. Dall'altra, gli insuccessi di questo sistema e la giusta
domanda di spazi di azione volontaria
portano a opporre la "buona volontà" dei singoli o del privato
sociale all'azione strutturale, opponendo (erroneamente) la
sussidiarietà, intesa come
spazio di autonomia, a una solidarietà obbligatoria e freddamente
burocratica. Il problema è che in questa dinamica si dissolve il patto
tra individui e comunità
politica, cioè il capitale sociale che è l'unica possibile base di
attivazione delle risorse personali. Il welfare del futuro nascerà nel
momento in cui si
riuscirà a rompere questo circolo vizioso, rilanciandolo come leva per
l'innovazione (cfr MAGATTI M., Il welfare del futuro, 16 ottobre 2011, in <www.generativita.it>).
La
prima fondamentale innovazione riguarda la riappropriazione del corretto rapporto sinergico fra Stato e privato,
entrambi indispensabili, entrambi, da soli, insufficienti:
«Lo Stato è una precondizione di una comunità ordinata, senza la quale
lo sviluppo umano integrale è irraggiungibile. I dispositivi di
istituzionalizzazione
della solidarietà attraverso tasse e contributi sociali furono
introdotti perché le iniziative private da sole non erano sufficienti.
La forma di solidarietà
organizzata dallo Stato è affidabile e stabile, e perciò necessaria. Ma
non è abbastanza, in particolare perché manca dell'aspetto della
volontarietà»
(n. 5). Per questo - prosegue il testo - le forme istituzionali di
solidarietà gratuita devono essere preferite a quelle organizzate dallo
Stato o affidate al mercato ogni
qual volta esse dimostrano uguale efficacia ed efficienza: è questo il
significato autentico della sussidiarietà, che non coincide con la
tendenza al disimpegno progressivo
del "pubblico" e alla privatizzazione del welfare allo scopo di
abbattere i costi.
b) Tra diritto e gratuità
Alla tensione appena ricordata tra le diverse forme di
istituzionalizzazione della solidarietà si affianca quella che riguarda
il fondamento della titolarità alle
prestazioni di welfare, che tradizionalmente oppone diritto e beneficio,
o giustizia e carità (nella corruzione assistenzialistica del
significato del termine). Il vicolo
cieco in cui sembra che le nostre società si siano cacciate richiede di
mettere in questione questa opposizione: «appare sempre più chiaramente
che in molti
Paesi si manifestano minacce alla coesione sociale, nonostante l'elevato
grado di protezione sociale, perché non si è tenuto sufficientemente
conto del contributo
indispensabile delle associazioni a base volontaria e delle iniziative
private. [...] Una società non può funzionare solo sulla base di pretese legali, ma ha
bisogno di spazi di generosità, in particolare all'interno della famiglia» (n. 4).
Un quadro legale che valorizzi questi spazi e queste iniziative eviterà
le trappole della dipendenza e favorirà l'assunzione di responsabilità: solo mobilitando anche le risorse personali
si potrà garantire il successo di
un welfare che risponda ai diritti e ai bisogni fondamentali non tanto
con l'assistenza, quanto con l'attivazione delle capacità.
c) L'efficienza non è il contrario dell'etica
Nella proposta della COMECE questa dinamica di superamento delle
opposizioni è indicata come promettente ben oltre i confini del sistema
di welfare. Da molte parti si
sottolinea la necessità di un rinnovamento, anche etico, del
funzionamento del mercato. Questo risultato non sarà possibile senza la sinergia fra obblighi legali
e comportamenti liberi dei singoli: «il mercato europeo ha bisogno tanto di regole, in particolare per il settore finanziario, quanto della virtù dei
suoi protagonisti, dagli imprenditori fino ai consumatori. È questione di politiche di regolazione (Ordnungspolitik) e di etica istituzionale, così come di
moralità e di virtù» («Introduzione»).
Non è difficile comprendere
quanto questa impostazione si distacchi non solo da quella, a lungo
prevalente, che identificava nella deregolamentazione e nella presunta
amoralità tecnica delle decisioni economiche le chiavi per la tutela
dell'efficienza di mercato e l'ottenimento
dei benefici che questa promette, ma anche quella, più ambigua, che
ritiene la crescita economica una precondizione per la tutela dei
diritti sociali, attribuendole di conseguenza
una priorità politica. Uscire da questa prospettiva richiede un cambiamento culturale radicale,
che passi da una visione dei dispositivi della protezione sociale come
strumenti, necessariamente residuali, di contenimento assistenzialistico
di emergenze o problemi cronici, alla valorizzazione della loro
capacità di svolgere funzioni preventive,
promozionali ed emancipative che mettono in grado tutta la società di
funzionare meglio.
Su questo punto l'economia sociale di mercato, con tutta la tradizione su cui
si fonda, si distacca profondamente da una visione liberista, esattamente perché ripropone all'economia la domanda etica.
Non nei termini moralistici dell'elemosina
a cui destinare una parte dei profitti, ma attraverso il recupero della
relazione tra mezzi e fine: efficienza per quale scopo? E soprattutto,
efficienza a vantaggio di chi? (cfr
PERROT É., L'Europe et l'économie sociale de marché, in <www.ceras-projet.org>). In questa luce sarà possibile un rinnovamento del dibattito
sulla responsabilità sociale d'impresa, altro tema a cui l'UE (e non solo) destina crescente attenzione, e anche collocare correttamente il contributo di risorse che
è necessario chiedere al settore finanziario per uscire dalla
crisi, ad esempio attraverso l'introduzione di nuove forme di
imposizione fiscale: è probabilmente
vero che queste ne riducono l'efficienza settoriale - anche se non è
chiaro in che misura -, ma a vantaggio della più importante
competitività del sistema UE,
nel senso che sopra abbiamo cercato di illuminare.
3. È in gioco il futuro
Pur senza una compiuta teorizzazione, è diffusa la convinzione che le
questioni etiche siano un lusso difficilmente compatibile con i momenti
di crisi, e non solo sul
piano personale: ne è prova il generalizzato allentamento delle
preoccupazioni ambientali, in particolare rispetto ai cambiamenti
climatici. Prendono il sopravvento quelle
che la Dichiarazione definisce «soluzioni di mercato motivate da considerazioni di breve periodo» (n. 5), che inevitabilmente portano a una società e a
una politica di corto respiro.
In questo quadro la COMECE ripropone
con coraggio una visione di lungo periodo, che abbraccia non solo
l'intero processo di unificazione europea,
ma anche l'elaborazione di quella cultura e di quell'orizzonte di valori
che lo sostengono ed esprimono il suo significato più profondo. È il
fatto di essere una
comunità di solidarietà e di responsabilità che rende l'UE qualcosa
di più di un'area di libero scambio o della Comunità economica da cui
pure ha preso l'avvio. È questo "di più" che non può andare perduto,
anche in mezzo all'attuale crisi, se non si vuole rischiare che
l'orizzonte europeo
smarrisca ogni legittimazione e attrattiva per i suoi cittadini.
Ricordare tutto questo e soprattutto mostrarne la vitalità è il
contributo che i vescovi europei intendono
dare al dibattito sul futuro dell'Europa.