Il titolo di questo libro può suonare anonimo, ma non lo è affatto il suo contenuto. Il lavoro salariato in Italia, i processi che lo hanno trasformato e il loro impatto sulla vita delle persone, dal secondo dopoguerra a oggi, vengono raccontati coniugando più registri e punti di vista. Nella sua ricostruzione, Baglioni ricapitola l’itinerario intellettuale delle sue ricerche nel campo della sociologia del lavoro e delle relazioni industriali, di cui è uno dei maggiori esperti, e un percorso personale segnato dall’interesse partecipe per le vicende dei lavoratori e la loro condizione, vissuto soprattutto attraverso la collaborazione con l’esperienza della CISL.
Adottando una prospettiva storica, il testo si articola su due livelli: quello degli approcci politico-economici alla questione del lavoro (capp. I e II) e quello propriamente sociologico, che consiste in una sintesi dei principali approcci analitici (cap. III) e in una messa a fuoco di alcune grandi questioni e momenti (capp. IV-VIII). Il tutto è accompagnato da alcuni cenni e aneddoti autobiografici che evidenziano il coinvolgimento dell’A. nei confronti della realtà lavorativa e conferiscono al libro un tratto di testimonianza.
Proviamo a passare brevemente in rassegna i punti salienti del “racconto” di Baglioni.
Per quel che riguarda l’analisi della matrice ideologica delle visioni politico-economiche sul lavoro, il cardine del discorso è dato dall’individuazione dei caratteri essenziali delle posizioni maggiormente influenti, in Italia, in ordine alla tutela del lavoro e alla sua promozione: la cultura marxista e quella cattolica. «Se vogliamo esprimere questo dualismo in modo molto semplice, possiamo sostenere che la prima concezione si propone di modificare il rapporto di lavoro dipendente e l’assetto dell’impresa privata, nonché i tratti istituzionali della società. Mentre la seconda concezione tende a migliorare le condizioni di lavoro, economiche e normative, con strumenti e pratiche negoziali e legislative, che riconoscono il valore e la funzione sociale delle diverse categorie di occupati» (p. 15). Pur avendo fatto una chiara scelta di campo e attribuendo un maggiore realismo antropologico e sociale alla prospettiva cattolica, di cui forse sottovaluta la critica al capitalismo, Baglioni riconosce le valenze positive degli sviluppi riformisti del socialismo, nel contesto delle socialdemocrazie e del laburismo. Inoltre, rende atto alla maggior parte dei comunisti italiani di aver sostanzialmente accettato il contesto democratico e una compatibilità della propria azione con quella di processi e attori non antagonisti. La diversità fra le culture del lavoro italiane, pertanto, si attenua sensibilmente «sui temi concreti dell'azione politica e sindacale, come quello dell'occupazione nella forma ottimale di un posto stabile» (130 .p)
Congiuntamente all’onda del boom economico iniziato negli anni ’50, questa convergenza responsabile ha reso possibile, per i lavoratori italiani, una crescita di pari passo e senza precedenti del benessere, delle tutele e del welfare. Al punto da configurare il caso italiano – a detta dell’A. – come una variante del capitalismo europeo. «Il prodotto interno lordo per abitante, un buon indice della salute del sistema economico, cresce lentamente dal 1861 agli anni ’30. Dopo una flessione che si accentua con la seconda guerra mondiale, questo indice cresce decisamente nel decennio successivo: a prezzi costanti 2010, passa da 4.400 nel 1950 a 7.600 euro nel 1960. Siamo vicini al raddoppio. […] La disoccupazione scende da oltre l’8% nel 1950 al 6% nel 1960, raggiunge il minimo storico del 3,9% nel 1963» (pp. 123-124). Sono numeri che oggi sembrano incredibili, rappresentativi di una stagione per molti versi unica: dal 1945 agli inizi degli anni duemila, il PIL per abitante è aumentato di sette volte.
In questi decenni il lavoro si è trasformato con la terziarizzazione e lo sviluppo tecnologico, per cui oggi si può andare addirittura alla catena di montaggio in tuta bianca; si è diversificato, ha visto ridursi notevolmente il suo carattere identitario legato a classi sociali, categorie professionali, mestieri. Più di tutto è mutato il peso del lavoro con l’espansione della sfera privata e degli interessi extra-occupazionali dei lavoratori e dei segmenti che precedono (istruzione) e seguono (pensionamento) la vita attiva. «Il lavoro, quindi, resta centrale ma, come le due facce di una medaglia, convive e si intreccia con un’altra quasi-centralità, quella di tutto ciò che si sceglie o si fa oltre i confini del lavoro» (p. 175). Il lavoro coesiste con l’oltre-lavoro.
Il dato che segna maggiormente l’attualità, però, è il forte arresto subito dall’incremento del benessere e delle tutele del lavoro, verificatosi con il passaggio del secolo e sfociato con la crisi in una sensibile regressione e il ripresentarsi di una consistente quota di povertà. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: riduzione della domanda di lavoro e diminuzione dei posti stabili, diffusione delle occupazioni atipiche e spesso precarie, riduzione dei consumi nel tempo libero, ma anche di beni durevoli come le automobili, innalzamento dell’età pensionabile e passaggio al metodo contributivo, figli che sembrano destinati a un tenore di vita inferiore rispetto ai genitori, maggiori difficoltà nella formazione di nuove famiglie, diminuzione degli studenti universitari…
Di tutto ciò il libro di Baglioni offre una sintesi ben documentata, ricca di dati e riflessioni, nonché accessibile anche da parte del lettore non specialista, il quale vi troverà una mappa affidabile per orientarsi in un campo non sempre facile da comprendere. Qui si trova uno sguardo d’insieme, più che ricette e soluzioni per i nostri tempi di crisi. Però, il fatto di non essere solo un’opera di studio, ma anche il distillato di una lunga esperienza, offre un’importante lezione di metodo.
In primo luogo, Baglioni sottolinea il valore dell’approccio conoscitivo delle scienze sociali, oggi forse sottovalutate, le quali aiutano a prendere le distanze da concezioni del lavoro di stampo più ideologico, valutativo e predittivo. «Gli obiettivi dell’analisi sociologica del lavoro sono sostanzialmente tre: tener conto del contesto di riferimento, cogliere e spiegare le diversità, delineare i mutamenti e le loro implicazioni» (p. 60). Da diversi anni, ormai, nel dibattito tendono a contrapporsi le posizioni dei “tecnici”, i quali si occupano soprattutto di politiche del lavoro e di mercato del lavoro da una prospettiva principalmente economica o giuridica, e quella dei difensori dei diritti acquisiti sulla base di concezioni molto omogenee del mondo del lavoro. La prima tende a imporsi nella direzione di una flessibilità che sconfina nella precarietà e la seconda a subire un accerchiamento sempre più serrato. L’apporto delle scienze sociali può consentire agli esperti, al sindacato e alla politica di allargare lo sguardo.
L’ottica sociologica pone maggiore attenzione non al lavoro in quanto tale, che potrebbe risultare un’astrazione, ma ai suoi attori, considerati nelle loro condizioni, nel loro contesto e in riferimento ai processi che incidono su di essi. Tali attori sono certamente i lavoratori e qui l’analisi sociologica può essere di stimolo a un sindacato che si rimpicciolisce a tenere conto delle loro differenze per estendere la composizione della rappresentanza e «includere nel perimetro sindacale e contrattuale altri e nuovi gruppi e categorie di lavoratori non sindacalizzati» (p. 100). Ma gli attori del lavoro sono anche gli imprenditori, la controparte nel linguaggio sindacale, e Baglioni è stato tra i pochi, all’inizio degli anni ’70, a cercare di comprendere seriamente la loro cultura specifica senza indulgere in visioni antagoniste. Se il conflitto è ineliminabile dalle relazioni industriali, non va per questo esasperato e considerato l’unica via percorribile.
La stagione attuale di forte pluralizzazione dei rapporti e dei contesti di lavoro implica una decentralizzazione delle relazioni industriali per adattarle alle singole situazioni. Il che comporta, secondo Baglioni, una distinzione tra i diritti, i quali devono rimanere universali, e le tutele che possono variare a seconda delle opportunità. La contrattazione si sposta così verso il livello aziendale. Ciò dovrebbe consentire una regolazione più concreta, profonda e tempestiva, a patto di prevedere sostegni per le categorie più deboli e soggette alla provvisorietà. Qui dovrebbe entrare in gioco la politica, valutando ipotesi come quella del salario minimo.
In una fase di questo genere, i lavoratori non possono ragionare in termini solo difensivi e rivendicativi e i datori di lavoro non possono contare, per processi di innovazione e sviluppo, su dipendenti deboli e demotivati. Per affrontare la crisi c’è bisogno di collaborazione, più che di conflittualità. Baglioni rilancia perciò un altro tema da lui studiato a fondo, quello della partecipazione dei dipendenti al funzionamento, ai risultati, alla proprietà e al destino dell’impresa. Sarebbe una via per relazioni industriali costruttive e realistiche, dove i lavoratori sostengono le scelte condivise in cambio di compensazioni legate all’andamento aziendale di cui si sentono corresponsabili, coniugando consenso sociale ed efficienza produttiva. È una possibilità tradottasi anche in esperienze rilevanti, ma sfavorita dalla mancanza di una cultura diffusa per cui imprenditori e lavoratori si fanno carico delle rispettive esigenze e aspettative, una cultura da incoraggiare.
Guido Baglioni ha messo insieme, nel corso di una lunga militanza intellettuale ed etica, un ricco bagaglio di sapere ed esperienza che ha voluto condividere con questo libro. È un regalo di cui fare buon uso.
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