Sono trascorsi esattamente 40 anni da alcuni tra gli eventi più drammatici che hanno segnato nel profondo la storia della nostra Repubblica: il sequestro e il successivo omicidio di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana (DC), da parte delle Brigate Rosse (BR), dopo 55 giorni di prigionia. In occasione dell’anniversario, il giornalista Marco Damilano, direttore de L’Espresso, ha pubblicato un libro molto suggestivo che, partendo dai ricordi personali e dalla propria ricerca, prova a far rivivere ai lettori il clima e il contesto sociale in cui avvenne quella tragedia e il peso che essa ha avuto negli anni successivi e che tuttora ha. Lo stesso A., in un’intervista, ha descritto il volume «non come un saggio storico e neppure come un romanzo, ma come un viaggio nella memoria che è anche viaggio fisico», lungo la Penisola italiana, spostandosi in più luoghi per riannodare i fili e le trame di un periodo complesso e difficile della nostra storia.
Tutto comincia la mattina del 16 marzo 1978, quando Damilano, all’epoca un bambino di 9 anni, passa alle otto e mezza circa in via Mario Fani – strada situata nella zona nord di Roma – con il pulmino che lo porta alla scuola elementare per trascorrere una giornata di lezioni come le altre. Poco più di un’ora dopo, lui e tutti i suoi compagni sono costretti a tornare a casa con i propri genitori. È accaduta, infatti, una cosa inaudita: il presidente della DC, Aldo Moro, una delle personalità politiche più influenti e potenti dell’epoca, è stato rapito nella stessa via Fani da un commando delle BR, terroristi di estrema sinistra. La sua scorta, composta da cinque uomini, barbaramente trucidata. «I ricordi dei bambini selezionano, sono emotivi, non si muovono, restano fissati lì, incastrati nella memoria, una volta per sempre [...] Quella fu la giornata in cui diventammo grandi» (p. 11) scrive l’A. all’inizio del racconto.
Senza saperlo ancora, via Fani diventa «il luogo del nostro destino» (p. 11), lo spazio fisico nel quale si consuma un dramma che ancora oggi influisce sulla vita politica del nostro Paese e sulla qualità della sua democrazia. Un crudele agguato e un atroce “scherzo del destino” quello che colpisce l’inerme Moro, rapito proprio nella strada che porta il nome del fondatore dell’Azione cattolica, associazione di cui il presidente DC aveva fatto parte in anni giovanili, prima con l’impegno nella Federazione degli universitari cattolici e poi all’interno del Movimento laureati, realtà di intellettuali che aveva contribuito in maniera decisiva all’elaborazione e poi alla stesura della Carta costituzionale.
Il 16 marzo di quarant’anni fa si interruppe il grande progetto dello statista democristiano: quello di riportare il Partito comunista (PCI) a votare la fiducia a un Governo per la prima volta dopo il 1947. Le elezioni del 1976 si erano concluse con un sostanziale pareggio, avendo visto uscire vincenti sia la DC sia il PCI (insieme avevano raccolto il 73% dei voti dell’elettorato). Il risultato di quel voto aveva messo il partito democristiano – al governo del Paese ininterrottamente da trent’anni – «di fronte a un bivio: andare alla contrapposizione frontale con i comunisti o cercare il confronto, la strada più sottile e difficile, “un contatto”» (pp. 22-23). Damilano, utilizzando una felice similitudine, descrive Moro come un equilibrista, il funambolo francese Philippe Petit che nel 1974 aveva attraversato sospeso nel vuoto lo spazio compreso fra le Torri Gemelle a New York: «L’equilibrista sulla corda è in uno stato di equilibrio instabile. Il suo talento consiste nel far sì che la forza che tende a farlo cadere non acquisti mai una potenza superiore a quella di cui egli dispone per contrastarla. [...] La camminata all’indietro non viene praticata» (p. 24).
Moro era consapevole che per far progredire il Paese e per tenere in conto le trasformazioni economico-sociali avvenute nel decennio successivo al Sessantotto fosse necessario guardare avanti, con flessibilità e intelligenza, per aprire una “terza fase” repubblicana (dopo la “prima fase” del centrismo degasperiano e la “seconda fase” dell’apertura ai socialisti e dell’esperienza dei Governi di centro-sinistra), così da rendere meno ingessato e impermeabile ai mutamenti il sistema politico italiano e giungere a una “democrazia compiuta” dell’alternanza fra forze politiche diverse. Questa prospettiva era rimasta irrealizzabile fino ad allora per colpa della trentennale contrapposizione ideologica tra DC e PCI e a causa dello schema di Yalta, che dal 1945 aveva inaugurato la Guerra fredda e la divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Moro aveva ben compreso come «una democrazia complessa non si governa con la forza del comando, ma con l’abilità di non strapparne la trama» (p. 25) e il suo sforzo fu sempre teso a non esasperare gli animi, a trovare soluzioni percorribili ma non scontate per allargare la base della democrazia e far progredire l’Italia, «il Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» (ivi), secondo una delle sue definizioni più acute.
Il viaggio di Damilano si snoda attraverso la Puglia (nel paese natale di Moro, Maglie), la Sicilia (a Racalmuto, nell’agrigentino, sulle tracce di Leonardo Sciascia), il Friuli-Venezia Giulia (a Casarsa della Delizia, dove è sepolto Pier Paolo Pasolini), il Lazio (a Oriolo Romano, vicino al lago di Bracciano, e Roma) e la Tunisia (ad Hammamet, sulle tracce di Bettino Craxi e dei suoi ultimi anni da latitante), cercando in prima battuta «enigmatiche e tragiche correlazioni con Pasolini e Sciascia»: insieme allo statista democristiano, infatti, sono le sole personalità che nel cuore degli anni ’70 «capiscono molto di quel nostro passato e quindi del nostro presente» (p. 76). La crisi della politica, avevano compreso tutti e tre, «non riguardava solo il partito-Stato» (p. 84), la DC, ma avrebbe coinvolto tutti, senza distinzioni di sorta, travolgendo maggioranze e opposizioni.
A Oriolo Romano, nel viterbese, l’A. visita l’Archivio Sergio Flamigni, che raccoglie documenti e testimonianze riguardanti le inchieste degli anni di piombo. Qui è conservato l’archivio delle carte personali del presidente DC e fra buste e faldoni ne spiccano alcune con una scritta a mano, tracciata a matita da Eleonora Moro, la moglie di Aldo: «Chi è A.M.». Ecco, Damilano riesce a farci scoprire il vero Aldo Moro, l’uomo di profonda e intensa fede, il marito, il padre, il giurista, il professore universitario, liberandolo dai 55 giorni di prigionia in via Montalcini, dalle BR e dai misteri che circondano la sua fine, restituendoci «senza punti interrogativi, senza misteri ed enigmi, l’uomo che provò a risanare la democrazia che si stava disgregando» (p. 106). Scrive ancora l’A.: «“La verità è luminosa, sempre. La verità è sempre illuminante e ci aiuta a essere coraggiosi”, aveva detto il giovane Moro nelle sue lezioni dopo la guerra. E questa storia, la vicenda umana e politica di A.M., è stata un cammino di luce» (p. 159).
Il volume – il cui titolo riprende una citazione di Moro – dedica poco spazio alle dietrologie, ai “se” e ai “ma”, alle ricostruzioni fantasiose che si sono susseguite in questo quarantennio, non nascondendo però i dubbi e i punti oscuri di una vicenda mai del tutto chiarita; anche rileggendo le lettere dalla prigionia e il “memoriale” recuperato più di dieci anni dopo, l’A. ci descrive la personalità fuori del comune del prigioniero, sottolineandone la profondità dei ragionamenti e la vitalità indomita. Fino alla fine, infatti, Moro ha provato a far ragionare i compagni di partito e tutto l’arco parlamentare, per cercare di costruire un percorso valido per la sua liberazione, che non fosse destabilizzante per le istituzioni. Inoltre, fa impressione leggere come Moro, da grande ascoltatore e osservatore della realtà, anticipi di anni gran parte dei problemi e delle questioni che ci troviamo oggi ad affrontare: dalle incognite geopolitiche dell’Europa al primato dell’economia, dalla crisi della democrazia e dei partiti di massa alla difficoltà a realizzare una grande riforma istituzionale, fino alla crisi del sistema mediatico.
Bisogna prendere atto, nel rileggere a distanza di tempo quel periodo e la storia della nostra Repubblica, del fatto che Moro – proprio perché innovatore autentico – fosse detestato da entrambi i fronti; per l’estrema sinistra incarnava un trentennio di malgoverno democristiano, per la destra era «diventato il nemico numero uno, dal luglio del 1960, quando da segretario della DC aveva bloccato il tentativo autoritario del governo di Tambroni sostenuto dal Movimento sociale» (p. 178). Come rimarca l’A., il leader DC temeva la presenza di una destra profonda, conservatrice e reazionaria, incapace di guardare al futuro e al bene della comunità, ripiegata sulla paura e la chiusura agli altri, annidata in maniera ancestrale all’interno dell’elettorato moderato. Una destra che, eliminato Moro, non ha più avuto ostacoli per dilagare e imporsi nella sua versione più grezza, sia in Italia sia in Europa.
Con l’uccisione di Moro non solo è finita la DC, ma anche la Prima Repubblica, trascinatasi stancamente fino all’epilogo di Mani pulite del 1992-1993. La sua morte ha segnato la fine della politica come leva privilegiata del cambiamento, della mediazione tout court e ha reso impossibile un’autoriforma dei partiti a lungo attesa, della classe dirigente e del personale politico. Se Moro fosse sopravvissuto, la politica sarebbe stata in grado di intraprendere un cammino differente, senza ridursi al basso “teatrino” di cui siamo spettatori oggi? Sarebbe riuscita a fare un salto di qualità? L’A. sembra dare risposta positiva, specificando come i tragici fatti del 1978 spieghino il nostro presente e siano un monito costante al nostro futuro.
«Non toccava a noi salvarlo, quella mattina in via Fani [...] Ma tocca a noi, invece, continuare il cammino per diventare una democrazia adulta, avere sempre fame di giustizia, sete di un atomo di verità» (p. 267). Quella verità a cui Aldo Moro ha reso limpidamente testimonianza nel corso di tutta la sua esistenza, fino al sacrificio della propria vita.