La trama
Osamu è un umile operaio edile che vive alla periferia di una moderna città del Giappone. Lavora a giornata e per “arrotondare” si cimenta quotidianamente in piccoli furti ai danni dei bazar locali. Una sera, sulla strada verso casa incontra Yuri, una bambina di cinque anni scappata di nascosto da una abitazione vicina a causa di una violenta lite fra i genitori. Preso da compassione, Osamu decide di accoglierla in casa propria per la cena dove lo attende una famiglia tanto apparentemente normale quanto, in realtà, del tutto singolare: una giovane donna, un’anziana vedova, una studentessa e un ragazzino preadolescente, nessuno dei quali, però, legato a Osamu o ad alcuno degli altri tre da effettivi legami di parentela. I cinque individui, infatti, condividono vitto e alloggio spinti soltanto dalla necessità di collaborare per far fronte alla miseria. Di fronte agli inconfondibili segni di violenza che scoprono sul corpo della bambina decidono di adottare anche lei come una figlia.
La versione italiana del titolo di questo film di Kore-eda Hirokazu – già famoso per aver sviscerato il tema dei rapporti familiari in diverse sue opere precedenti come Father and Son (2013) e Little Sister (2015) – e il suo corrispettivo inglese (Shoplifters, letteralmente “taccheggiatori, ladruncoli”) ben sintetizzano insieme il significato dell’originale giapponese, che ne riassorbe entrambe le accezioni. Manbiki Kazoku significa, infatti, “La famiglia di taccheggiatori”. È un primo elemento importante, su cui vale la pena soffermarsi.
L’immagine della famiglia come cellula originaria di ogni società fondata sui principi della condivisione, della gratuità e del sostegno reciproco è oggi inseparabile, sembra suggerire il regista, dall’idea che talvolta sia necessario eludere la sorveglianza delle leggi per preservare la naturale capacità di ogni famiglia di generare uomini e donne in grado di coltivare in sé un’umanità degna.
È una delle tante contraddizioni della nostra epoca, segnata da disuguaglianze spesso così laceranti da impedire a coloro che si ritrovano scartati ai margini delle odierne opulente metropoli di accedere facilmente a qualsiasi forma di reinserimento sociale, relegandoli a una condizione di esclusione e di invisibilità ancor peggiore di chi nel frenetico circuito della globalizzazione non è neppure mai entrato.
Questi poveri contemporanei, di cui la “famiglia di fatto” ritratta da Hirokazu rappresenta l’emblema, sono a malapena considerati da un sistema economico che li confina nel ruolo di sostituibili ingranaggi, semplici costi di produzione. A questo proposito è esemplare il modo in cui Nobuyo, la “mamma” della famiglia, viene licenziata dalla lavanderia industriale dove lavora da tempo perché il suo stipendio orario è ormai “troppo alto”. O ancora il fatto che Osamu, pur svolgendo un lavoro molto pericoloso, non sia in alcun modo tutelato nel momento in cui incorre in un infortunio all’anca, perdendo così ogni speranza di sostentarsi autonomamente.
Non c’è da stupirsi perciò se a un primo impatto questa coppia (e per estensione questa strana famiglia) sembra essere “tenuta insieme” esclusivamente dal denaro, e nello specifico dalla misera pensione dell’anziana Hatsue, unica fonte certa di sostentamento per tutti quelli che dormono sotto il suo poverissimo tetto.
Tuttavia, lo spettatore si accorge ben presto che la motivazione utilitaristica non è sufficiente a spiegare il comportamento di queste persone che riescono, seppur con estrema semplicità, a convivere con grande dignità prendendosi amorevolmente cura gli uni degli altri, proprio come se fossero una vera famiglia e senza essere in alcun modo obbligati a coltivare con tanta delicatezza i propri legami affettivi. Significativa, per esempio, è la confessione di Osamu, il quale sostiene di aver insegnato ai suoi figli adottivi a rubacchiare perché, oltre all’affetto che poteva dimostrargli e all’importanza di amarsi come fratelli, non aveva «nient’altro da insegnargli».
Un altro punto che il film tenta di mettere in luce è che non è sempre necessario condividere legami di sangue per costruire una famiglia.
Anche laddove non vi siano vincoli di parentela, infatti, possono sussistere l’amore e la coesione fra le persone. L’amore di coppia, come quello che lo spettatore scoprirà fra Osamu e Nobuyo, ne è in fin dei conti la prova. Su di loro, che per primi (come tutti gli amanti) si sono accolti al di fuori di qualunque legame parentale, si fonda infatti anche l’armonia di questa famiglia.
A differenza di quanto si potrebbe pensare, quindi, il regista non intende depotenziare il concetto di famiglia, dipingendola come un’utile formalità giuridica cui aspirare pur di scampare a una vita di solitudine o violenza. Egli sposta però l’attenzione dai vincoli di sangue al sentirsi accolti, come elemento necessario per riconoscersi parte di essa.
Tuttavia, laddove per riconoscersi fratelli è sufficiente accogliere la semplice presenza dell’altro, per sentirsi amati come figli questo non basta. Il giovane Shota ne è la dimostrazione. Da un lato non gli risulta troppo difficile vincere la gelosia e riconoscere una sorella nella piccola Yuri che lo chiama «Fratellone!». Dall’altro, invece, gli è quasi impossibile rivolgersi ad Osamu (che egli vede come un amico) con l’appellativo di “papà”; almeno tanto quanto lo è per la bambina sentirsi amata come una figlia dai suoi veri genitori che, pur essendo presenti, non sono in grado di accoglierla come merita.
Con il passare dei minuti, dunque, la famiglia si configura in questo film come una realtà in divenire, tenuta insieme essenzialmente da una cosa sola: la capacità di scambiarsi un amore autentico e incondizionato, indipendente da qualunque fine utilitaristico. I componenti di questa bizzarra combriccola sono infatti, prima ancora che bisognosi di un aiuto materiale, desiderosi di trovare questo amore. Una ricerca che, per quanto impacciata, per alcuni di loro trova il suo compimento in questa originale forma di famiglia, mentre per altri quest’ultima rappresenta solo un necessario punto di partenza.
La vecchia Hatsue, ad esempio, nostalgica di un passato in cui è stata tradita dal marito, desidera non morire sola, ma circondata dall’affetto di persone che abbiano bisogno di lei tanto quanto lei di loro. La giovane studentessa Aki – prediletta di “nonna” Hatsue – sogna invece di incontrare e accogliere il ragazzo giusto per lei, sebbene la sua unica occasione di socializzazione con gli uomini consista nel suo lavoro come modella di un peep-show.
Anche la piccola Yuri, dal canto suo, dimostra di saper riconoscere un amore autentico da uno falso, poiché dice di ricordare di essere stata cresciuta da una «nonna gentile» che, al momento della propria dipartita verso il «paradiso», l’avrebbe lasciata nelle mani di due genitori irresponsabili e violenti. Osamu e Nobuyo, infine, sono due amanti di lunga data, la cui passione, seppur frustrata dalla povertà, ha di gran lunga preceduto quest’ultima e non si è ancora spenta, così come il loro desiderio di avere figli che la donna non è però in grado di concepire.
Non è un caso che il giovane Shota sia l’unico che fatica ad accettare di essere amato per quello che è e a trovare il suo posto nel mondo. Egli, infatti, pur godendo come tutti gli altri dei benefici economici di questa convivenza improvvisata viene a sapere di essere stato ritrovato per sbaglio dai suoi “genitori adottivi”, abbandonato in un’auto che i due intendevano rapinare senza lasciare tracce. È ben conscio, inoltre, del fatto che il suo principale compito all’interno del gruppo sia “solo” quello di assistere Osamu durante l’esecuzione dei suoi furtarelli quotidiani.
La sua fragile condizione e la sua intelligente innocenza, dunque, sommate al senso di confusione causatogli dai pochi ma stravaganti principi etici insegnatigli dagli stessi Osamu e Nobuyo (fra i quali ricordiamo quello che recita: «È lecito rubare solo dai negozi, poiché la merce che si trova lì non appartiene ancora a nessuno, ma a patto che ciò non mandi il negoziante in bancarotta») faranno sì che sorga in lui il dubbio riguardo alla bontà della loro condotta morale e della sincerità del loro amore.
Temendo per un attimo, come ogni adolescente, di essere vittima di un grande inganno orchestrato a sue spese, Shota deciderà così di compiere un gesto estremo, nel tentativo di preservare la piccola Yuri dal dramma identitario che lui stesso sente di essere stato costretto a subire. A mettere in crisi questa famiglia non sarà, dunque, la sua anomalia giuridica ma una serie di ordinarie incomprensioni e occasioni d’amore mancate fra le diverse generazioni.
Queste difficoltà la traghetteranno verso un epilogo tanto pronosticabile, per via di alcuni risvolti della trama che qui non sveleremo, quanto inatteso, a causa del ritmo dolce di una narrazione filmica che, pur senza assecondare alcun tipo di illusione, permette comunque allo spettatore di lasciarsi cullare da un irrealizzabile sogno per quasi due ore.
Alla fine, quando tutti i nodi problematici, le colpe e le debolezze dei personaggi vengono svelate, l’amara consapevolezza che la miseria degli uomini possa spingerli, talvolta, a strumentalizzare persino l’amore più genuino non sembra però avere ancora l’ultima parola. Essa non cancella, ad esempio, il fatto che quell’amore sia esistito davvero e, forse, permettendoci di meditare sulle ragioni delle ferite patite per esso, ci consente di riconoscerlo chiamandolo finalmente per nome.