Tutti i soldi del mondo

Ridley Scott
Stati Uniti-Gran Bretagna 2017, Lucky Red Distribution, drammatico, 132 minuti
Scheda di: 
Fascicolo: ottobre 2018

Roma, 1973. Uomini mascherati rapiscono un delicato adolescente dai lunghi capelli biondi, chiedendo come riscatto una cifra spropositata: 17 milioni di dollari. Tutti i soldi del mondo, verrebbe da dire. Ma quel ragazzo non è una vittima qualunque. È Paul Getty III, uno dei nipoti ed eredi del magnate John Paul Getty, petroliere ricchissimo, forse il più ricco uomo del mondo di sempre, gretto e calcolatore, tanto da essere chiamato “il vecchio sporco e ricco”. La polizia sembra impotente, la trattativa si complica e la testarda, coraggiosa madre divorziata, Abigail Harris, deve mediare tra la ferocia dei criminali e l’avaro cinismo del nonno, il quale dichiara freddamente alla stampa: «“Vedete, ho 14 nipoti, se comincio a pagare riscatti, avrò 14 nipoti rapiti, capito?”. “Ma lei – lo sappiamo – è un negoziatore geniale, quanto pagherebbe allora per suo nipote?”. “Niente!”».

Per uscire dallo stallo occorrerà esibire la prova cruenta (l’orecchio mozzato) che il ragazzo è vivo. Intanto l’intera opinione pubblica segue con trepidazione la vicenda, domandandosi se e perché si possa amare più il denaro che la propria famiglia e con quali criteri si debba affrontare un simile dilemma morale: il calcolo delle conseguenze, il valore intrinseco dei gesti, o il significato di antiche virtù.

Ispirato a fatti reali e basato sul libro del biografo John Pearson (pubblicato nel 1995 e ora tradotto anche in italiano), il film si discosta in parte dalla cronaca dei fatti sotto la direzione del grande Ridley Scott (Blade Runner, Il gladiatore, Thelma & Louise) e grazie alla fotografia nervosa di Dariusz Wolski, l’eterogenea scenografia di Arthur Max (selvaggia, boschiva, oppure barocca, sontuosa) e le spregiudicate musiche di Daniel Pemberton, che spaziano dal classico al pop per cucire assieme mondi assai diversi: la lussuosa vita del miliardario, la straziante ricerca operata da una madre, la violenza impietosa della malavita, i sordidi luoghi di una povertà arcaica. Per lo spettatore sono memorabili gli occhi diabolici del nonno, interpretato da Christopher Plummer, incastonati in un volto di cera, in una maschera inespressiva, e tuttavia pulsanti ancora di affetto per il nipote preferito, quello cui stava insegnando le astute arti degli affari e trasmettendo il crudo vocabolario del business: «Inestimabile significa di solito impagabile, ma è una falsità: tutto ha un prezzo, si tratta di negoziare quello giusto!». Al piccolo Paul il miliardario confida i suoi sogni d’onnipotenza, il delirio di megalomania, l’ossessione morbosa per il controllo dei soldi e delle menti: «Volevo dargli tutto, offrirgli quello che ho imparato»; e ancora: «Mi piacciono le cose. Non cambiano mai, non deludono mai, a differenza degli esseri umani; le cose belle hanno un fascino ineguagliabile». Il vecchio petroliere sa di essere invidiato e odiato, ma si è costruito una corazza caratteriale granitica. Si sente importante addirittura come l’imperatore Adriano. Respira la bellezza dei Fori romani come la propria casa. E così trasmette al nipote il sentimento di una vocazione tremenda, di una signoria perversa: «Siamo di un altro pianeta… perdonateci».

Diventare ricchi è facile – dice il vecchio – qualsiasi idiota può diventarlo, ma essere ricchi, restare ricchi è difficile, perché significa far fronte all’“abisso” aperto dalle enormi possibilità di acquisto. «Quell’abisso l’ho visto. L’ho visto ingoiare uomini, famiglie, bambini». Perciò il patriarca ha scelto l’ascesi: non concedersi alcun consumo gaudente, ma circondarsi di bellezze artistiche e votarsi all’immortalità del nome, della discendenza, dell’impero. In quel nipote speciale, il nonno vedeva se stesso giovane ed eterno.

La pellicola non va letta solo come un appassionante resoconto di cronaca, ma come l’anatomia di un vizio. Da dove sorge l’avarizia? Che cosa alimenta e spiega l’avidità, il desiderio smodato di possesso? Come è possibile che tale vizio non scivoli nella follia o nella tossicodipendenza? Come in effetti avviene per l’inetto padre di Paul III, un fallito, forse perché orfano sin da bambino, trascurato da un genitore affarista che non aveva tempo e affetti per i suoi stessi figli. Il film ritrae molte tipologie di avidità. C’è quella del povero pastore calabrese, morso dalla fame. C’è l’avidità del boss della ‘ndrangheta (che compra il prigioniero come si fa con gli schiavi), una rete criminale poggiata non casualmente su nuclei familiari e vincoli di sangue, le ‘ndrine. C’è l’avidità del patriarca Getty, che ha sublimato la sua sete di potere accumulando titoli di borsa e usando i collaboratori, pagati profumatamente, come pedine impersonali, per massimizzare i profitti, per immunizzarsi contro il caso, per giocare a fare dio.

Dietro l’avidità di tutti c’è un fantasma che rode e inquieta, c’è una perdita cui si cerca di rimediare svendendo – se occorre – persino l’anima, c’è un trauma antico che si vorrebbe riscattare. L’avido sente, con maggior o minore consapevolezza, che la propria identità gli è stata tolta, che la sua innocenza è stata violata, che un misterioso rapimento lo ha strappato dagli affetti più cari. L’avido è perennemente sotto sequestro, ma nel buio della sua prigione non sa identificare il colpevole. Chi gli ha rubato la libertà e soffocato la spontanea passione per la vita? Chi è penetrato nella sua mente e ha disturbato il fiducioso dialogo con il mondo? Un bambino ferito non sa più a chi credere e ogni contrattazione si fa estenuante e pericolosa se l’alleato è inaffidabile. Perciò l’avido teme le relazioni e dissimula le emozioni come segni di debolezza.

La contraddizione dell’avarizia risiede nell’impraticabile tentativo di mettere al sicuro la vita con le proprie mani. Ma il potere e l’accumulo sono demoni che non liberano facilmente i loro prigionieri. «Di più», sempre di più pretende il vecchio Getty, da sé e dagli altri. Egli è ostaggio del suo stesso denaro. Le figure della mercificazione spirituale e dell’idolatria del possesso sono rappresentate nel film da simboli corporei: statue antiche e dipinti trafugati per i bramosi occhi del miliardario e chiusi nella sua straordinaria collezione; catene ai piedi e un lobo auricolare amputato al nipote rapito; dita femminili che contano febbrilmente le infinite banconote del riscatto; sguardi rapaci di briganti e affaristi che sospettano di tutto e di tutti.

Il pensiero va inevitabilmente al Mercante di Venezia di Shakespeare, in cui l’usuraio Shylock stipula un contratto per il prestito di tremila ducati con Antonio, un mercante veneziano suo concorrente, che lo aveva insultato e preso a sputi. A garanzia del prestito in caso di mancato pagamento Shylock chiede e ottiene che il mercante paghi con una libbra di carne del proprio corpo. Giunta la data della restituzione senza che il pagamento sia effettuato, l’usuraio reclama impietosamente il suo credito, esibendo un pugnale ben affilato. Ma c’è un cavillo giuridico: l’usuraio ha diritto alla carne, ma non al sangue. Se tagliando quel corpo cadrà una sola goccia di sangue, l’esecuzione del contratto diventerà un omicidio e farà dell’avido usuraio un criminale. Così il patto scellerato, impossibile da onorare, conduce alla rovina il malvagio alla ricerca di un soddisfazione cruenta. Fuori di metafora: la logica economica implode, se applicata meccanicamente al dominio inviolabile della vita personale. Questo perché di fatto noi non abbiamo un corpo, noi siamo un corpo che reclama venerazione e cura, da noi stessi e dagli altri: come dice il Vangelo, «La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito» (Luca 12,23) e quindi «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano» (Matteo 16,19). Per questo, solo una vita consacrata alla giustizia scioglie dalle inquietudini per la vulnerabilità delle nostre membra.

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