Tre manifesti a Ebbing, Missouri

di Martin McDonagh
20th Century Fox distribuzione, USA 2017, Commedia/drammatico, 115 min.
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2018

“Sorprendente” e “originale”: questi sono i termini che ricorrono più spesso a proposito di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. A dispetto del titolo minimalista, il film scritto e diretto dall’angloirlandese Martin McDonagh ha raccolto, fin dal suo debutto, un ampio consenso da parte di critica e pubblico, testimoniato anche dai premi ricevuti: Osella d’oro per la migliore sceneggiatura all’ultima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia; quattro Golden Globe (di cui un paio ai protagonisti); ben sette candidature agli Oscar, tra cui quella come miglior film.

Un successo meritato? In buona parte, sì. Anche se, come vedremo, non tutti i conti tornano, non si può certo negare al regista una sfrontatezza a suo modo coraggiosa: non era certo facile raccontare, “dall’esterno” e in forma di commedia (per quanto grottesca), l’America dell’era post-Obama, dove l’impoverimento della middle class ha favorito da un lato la ricomparsa di spinte razziste e segregazioniste (peraltro mai sopite); dall’altro ha dato luogo a una sorta di “Far West morale”, per cui spesso il modo migliore per ottenere giustizia risulta quello di farsela da sé.

È proprio da un profondo, estremo, eccessivo desiderio di giustizia che Tre manifesti prende le mosse. Mildred Hayes (interpretata da Frances McDormand) fa la commessa in un negozio di souvenir e chincaglieria; ha alle spalle un matrimonio fallito con un ex poliziotto violento e due figli, Robbie (Lucas Hedges, già visto in Manchester by the Sea) e Angela (Kathryn Newton). I tre vivono nei pressi dell’immaginaria cittadina del titolo, Ebbing, un tipico centro della vasta provincia statunitense. Una sera Angela, cui la madre ha rifiutato di prestare la propria auto, decide di recarsi in città a piedi. Ma durante il tragitto è vittima di un misterioso aggressore: viene violentata e bruciata viva. Un anno dopo, il colpevole è ancora ignoto. È a questo punto che Mildred decide di affittare tre grandi cartelloni pubblicitari in disuso lungo la strada che porta a Ebbing, per affiggervi sopra tre frasi a caratteri cubitali: «Stuprata mentre stava morendo», «E ancora nessun arresto» e «Come mai, sceriffo Willoughby?».

Mentre l’intera comunità, evidentemente colpita dalla durezza dell’accusa, si stringe compatta attorno allo sceriffo (Woody Harrelson), il pubblico non può, almeno per il momento, non solidarizzare con Mildred, soprattutto quando, intervistata da una televisione locale, dichiara che «la polizia è troppo impegnata a torturare i neri» per indagare seriamente sulla fine terribile di sua figlia. Il riferimento è a Jason Dixon (Sam Rockwell), un agente di polizia ottuso e violento, ben noto alle cronache cittadine per la tendenza ad alzare il gomito e per il disprezzo nei confronti delle persone di colore.

Fino a questo momento, Tre manifesti pone lo spettatore di fronte alla più classica suddivisione fra buoni e cattivi; una visione manichea a cui Hollywood ci ha ampiamente abituati: una donna assetata di giustizia, sola e determinata, versus le forze dell’ordine tanto arroganti quanto imbelli. Le certezze del pubblico incominciano però a incrinarsi quando lo sceriffo Willoughby – in apparenza l’archetipo del “bravo americano”: onesto, robusto, il ritratto della salute – si reca da Mildred per indurla a smontare quei cartelloni. L’uomo le confessa di essere ormai minato da un cancro ai polmoni e una vicenda come questa non farà altro che amareggiare i pochi mesi di vita che gli rimangono. Tuttavia, certa com’è delle proprie ragioni, Mildred è irremovibile. E i cartelloni restano al loro posto.

La posizione di Mildred all’interno della comunità inizia a traballare. Il regista è particolarmente efficace nel mostrare come il mondo solidale e amichevole in cui abita la protagonista riveli pian piano il proprio volto ostile e nemico. Impercettibilmente ma inesorabilmente Mildred è sempre più isolata (anche il figlio Robbie non condivide più la sua ostinazione), viene fatta oggetto di piccole vessazioni e ripicche. Eppure non si arrende, non si sottrae nemmeno allo scontro fisico con i suoi concittadini: durante una visita dentistica aggredisce il medico, non appena sospetta che questi voglia utilizzare i ferri del mestiere per farle del male...

Se, a questo punto, il pubblico è già sufficientemente disorientato riguardo alle effettive “buone” ragioni della protagonista, lo diventa ancor di più quando lo sceriffo, ormai debilitato dall’incombente malattia, dopo aver trascorso una giornata di vacanza con moglie e figli, redige di proprio pugno tre lettere d’addio (una alla consorte, una a Mildred, una all’agente Dixon) e si uccide con un colpo di pistola. È un momento di forte teatralità: sia per il linguaggio, fra l’aulico e l’affettuoso, adottato dallo sceriffo (McDonagh sceglie di far accompagnare la sequenza del suicidio e del rinvenimento del cadavere dalla voce narrante del personaggio stesso), sia perché rappresenta il definitivo cambio di marcia del film. Da qui in poi, infatti, Tre manifesti imbocca con maggiore decisione la strada del grottesco, anche attraverso immagini di fortissima pregnanza visiva.

Prendiamo la scena in cui l’agente Dixon – che nel frattempo, per ordine del nuovo sceriffo è stato espulso dal corpo di polizia dopo l’ennesimo pestaggio – legge la lettera indirizzatagli dal defunto Willoughby. È solo; si è introdotto di nascosto, di notte, nella stazione di polizia grazie all’aiuto degli ex colleghi, con l’unico scopo di leggere quella missiva così importante. È ormai isolato da tutto e tutti, anche acusticamente: ascolta musica da un iPod con un paio di cuffie. Di nuovo, sentiamo la voce di Willoughby: a dispetto delle sue intemperanze e dei suoi macroscopici difetti, definisce Dixon «un bravo detective» e un uomo buono («a decent man» nell’originale: quello della common decency è un concetto intraducibile della cultura anglofona, che unisce buon senso e rettitudine morale). Mentre Dixon è intento a leggere, Mildred sta preparando delle bottiglie incendiarie da lanciare contro la stazione di polizia, a mo’ di atto dimostrativo. L’uomo non sente lo squillo del telefono con cui Mildred vuole assicurarsi che nell’edificio non ci sia nessuno, né l’esplosione della prima molotov contro le vetrate. Così, mentre la voce di Willoughby continua a tessere le lodi dell’ex poliziotto e la musica delle cuffie risuona a tutto volume, vediamo Dixon leggere ignaro, mentre tutto prende fuoco intorno a lui. Una sequenza di grande intensità, di “cinema-cinema”, come avrebbe detto il regista Truffaut, ma al tempo stesso carica di ironia, come altre sparse lungo il film: si pensi alla figura ricorrente del nano giocatore di biliardo, innamorato della protagonista.

Il continuo gioco al rialzo di McDonagh, ben deciso a disattendere le aspettative del pubblico, non sempre regge sulla lunga distanza. Non si tratta soltanto di un difetto strutturale. Il meccanismo di rovesciare la retorica manichea di Hollywood è un’arma a doppio taglio che rischia talvolta di lasciare il posto a un’altra retorica, non meno stucchevole: quella secondo cui, alla fine, “tutti hanno le loro ragioni”. Una visione che, a conti fatti, giustifica pilatescamente tutti i personaggi: se ciascuno è colpevole, allora nessuno è colpevole. Ma un conto è sospendere il giudizio e invitare a superare le apparenze, anche quando sembrano incontrovertibili, come nel caso di Dixon e Mildred; un altro è compiacersi un po’ cinicamente del destino tragicomico dell’America contemporanea. Più bravo a descrivere i sintomi di una malattia sociale che a fornire una diagnosi, McDonagh sembra talvolta lasciarsi prendere dallo stesso vuoto (di valori, di prospettive, di empatia) che caratterizza i suoi personaggi.

Ecco, è forse questo il solo aspetto vulnerabile di Tre manifesti. Un’opera che, al di là delle incertezze e delle occasionali stonature, rimane comunque fra i più significativi, problematici e “forti” ritratti dell’America profonda che Hollywood ci abbia dato in questi ultimi anni.


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