Terrore e modernità

di Donatella Di Cesare
Einaudi, Torino 2017, pp. 216, € 12
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2018

Un doloroso e recente fenomeno è all’origine del libro di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia all’Università “La Sapienza”: l’uccisione di persone innocenti negli attentati terroristici di matrice islamica. Spesso si usa la parola “terrore” per parlare di questi eventi, compiuti da persone che di solito vivono nelle povere periferie dell’Occidente, si percepiscono abbandonate e disperse, e scelgono di uccidere altri e allo stesso tempo di andare incontro a una morte violenta. Ma a che cosa si oppongono i terroristi? Se ci si interroga su questo punto si sposta il focus dell’attenzione, perché non si tratta più dei terroristi, ma di noi occidentali, eredi della Rivoluzione francese e abitanti la modernità. Si impone allora una domanda alla nostra attenzione: è proprio il terrore a definire la nostra amata modernità? L’A. risponde affermativamente e argomenta la sua posizione richiamandosi a due grandi temi.

Il primo fa capo allo Stato e alla sovranità. Filosofi e giuristi affermano che lo Stato moderno ha il «monopolio nell’uso della forza» (p. 127). Giusto: esso non nacque proprio decapitando l’antico sovrano – a Parigi – e affermando in tal modo il suo pubblico diritto? Questo “monopolio” non significa soltanto che la violenza di una parte non domina più i rapporti privati tra i cittadini, ma che lo Stato si impone ai suoi sudditi attraverso la forza sempre viva della minaccia, perché è sovrano «chi dispone della minaccia più credibile» (p. 50). La minaccia di morte appunto: quando la vittima potenziale si avverte «consegnata al vuoto planetario, esposta all’abisso cosmico» (p. 63). La storia europea mostra in modo nitido e crudo il rapporto tra Stato e morte: guerre di conquista e guerre di indipendenza, campi di battaglia, trincee, eroi e cadaveri. Tutte realtà non pensabili senza uno Stato dotato di sovranità. Come aveva ben capito anche Lenin che, lungi dal criticare la sovranità, la realizzò in grande. Mentre i vecchi anarchici volevano disfarsi dello Stato, i terroristi dei giorni nostri vogliono “appropriarsi” della sovranità, anzi del suo “principio”: vogliono essere la puntuale origine del timore diffuso che invoca e genera la sovranità ed esercitare «la sovranità assoluta di vita e di morte» (p. 154).

Ma noi occidentali, evoluti e invidiati, saremmo al riparo dalla violenza sovrana? Di fatto molti intellettuali, anche di sinistra, osservano con senso di superiorità sia il terrorismo sia le attuali guerre religiose del Medio Oriente. Senza avvedersi di aver «sacralizzato lo Stato» e di essere i sacerdoti di «una sorta di religione civile» (p. 161), nutrono «la pretesa paternalista di canalizzare il malessere di quei fratelli minori che seguono l’onda dell’integralismo religioso per reclutarli nella grande flotta socialista» (p. 175). Non si pensi, però, che il moderno Stato occidentale sia soltanto pacifica convivenza: proprio le sue reazioni, persino sul piano legislativo, agli atti terroristici lo mostrano desideroso di tutto «qualificare, definire, nominare» (p. 53); anche la sovranità moderna «è sempre virtualmente terrorista» (p. 50). Non ci stiamo forse avviando (noi occidentali) verso uno Stato di polizia? Che cosa ci indicano i militari o i vigili armati ormai presenti nelle nostre piazze? In effetti, «il terrore resta iscritto nel moderno Stato democratico», che non si accontenta di simboli, ma sa «amministrare il terrore che infonde nei cittadini» (p. 54) e la polizia è «il supplemento originario della sovranità» (p. 189). Per comprendere quanto ampia e profonda sia la forza della sovranità, per andare oltre alla chiacchiera mediatica che se ne serve senza averla davvero capita, occorre uno sguardo «freddo e deciso»: questo è lo sguardo del filosofo che osserva «il terrore serbato nello Stato» (p. 55).

Se spostiamo ora la nostra attenzione sul mondo islamico, siamo condotti in un altro orizzonte. Soprattutto dopo la guerra in Iraq, iniziata nel 2003, si è diffusa l’attesa di «un colpo d’ala della storia», per cui la sovranità umana diventerà un giorno la religiosa «sovranità illimitata di Dio» (p. 111). Un tale desiderio di sovranità vive un ideale escatologico: anticipare l’istante supremo in cui sarà finalmente chiaro e reale «il limite tra il Bene e il Male». In questo scenario, la sovranità è parente dell’apocalittica (pp. 110-112). Essa riporta all’antico sacro. Questa prospettiva, incentrata su un dominio sovrano, non è comune ai tre grandi monoteismi, dato che almeno due di essi (l’ebraismo e il cristianesimo) hanno accettato l’ermeneutica moderna dei loro testi sacri (pp. 163-165).

Ma il terrorista parla anche della vera e propria modernità – e qui tocchiamo il secondo tema che struttura il libro –, che non è più caratterizzata da un visibile vertice sovrano al tempo stesso temuto e osannato. Viviamo, infatti, un’epoca in cui gli Stati stanno perdendo «il monopolio della violenza legittima», visto che oramai si è generalizzata (p. 15). Il terrorista ci fa riflettere sulla globalizzazione, sull’impero della tecnica, sul consumismo, sul benessere commercializzato. Egli infatti è cresciuto in Occidente, dove nessuna tradizione lo costringe, dove nulla è sicuro e tutto è possibile, offerto allo sguardo come «le merci in un grande magazzino» (p. 114). Il terrorista nega una nostra persuasione: di vivere in una «marcia trionfale verso il confort generalizzato» (p. 44). Egli ci uccide perché ci conosce: il “neomartire” vuole «uccidere l’occidentale che è in lui prima ancora dell’occidentale che ha di fronte» (p. 131). In realtà, questo ambiguo rifiuto della modernità può assumere varie forme: dalla delinquenza ordinaria all’uso di stupefacenti o, più di recente, al terrorismo, una terza e ulteriore variante, in cui rinasce l’antico sacro: «la rabbia si sacralizza [...] il piccolo delinquente trova riscatto nel sacrificio incondizionato a una causa nobile ed elevata», egli assume «il ruolo dell’eroe religioso» (p. 118). Allargando il discorso, si può riconoscere che: «L’islam cristallizza il rifiuto per la modernità occidentale» (p. 130).

Questa critica della modernità è priva di ogni verità? Essa riproduce in forma sanguinaria la critica rivolta dai filosofi? Confrontarsi con queste domande ci spinge a guardare a noi stessi e alla nostra realtà. Siamo i destinatari di una «uniformazione violenta del mondo» (p. 11), viviamo un’epoca «incomparabilmente più violenta» di quella delle due guerre mondiali e della tensione Stati Uniti-Unione Sovietica (p. 12), siamo in mezzo a una «disuguaglianza violenta» e a una «globalizzazione armata» (p. 13), circondati da «innumerevoli conflitti a bassa intensità» (p. 14), inconsapevoli che «attraverso una serie ininterrotta di cause, un mio piccolo vantaggio qui si traduca altrove nell’agonia di qualcuno» (p. 149). Siamo una «scialba e gretta modernità» (p. 80), che però sfugge a molti intellettuali, i quali sono sicuri che la modernità sia una meta per tutti, non accorgendosi che l’islamismo guerriero «con la sua aspirazione trascendente lancia una sfida all’immanenza profana del capitale» (p. 174) , che questa «collera universale, speranza senza frontiere» è un fatto nuovo: essa è «l’alternativa orientale al comunismo» (p. 176).

Nel portare avanti il suo ragionamento, la Di Cesare ovviamente si confronta con la filosofia, la sua disciplina di appartenenza, e lo fa tracciando un proprio itinerario. Come altri critici della modernità, dialoga con Nietzsche e Heidegger, che ne denunciarono il “carattere autodistruttivo”, e prende le distanze dalle posizioni di Habermas, ritenute un progetto degno anche se non ancora compiuto. Considera poi con attenzione la filosofia di Lévinas. Questi critica il “soggetto moderno” che si pensa come «sovrano preoccupato unicamente della sua sovranità [...] sciolto e svincolato da qualsiasi responsabilità». Ben al contrario, Lévinas afferma che l’uomo è «ostaggio già sempre offerto all’altro [...]. Senza l’altro l’io non esisterebbe neppure [...]. La responsabilità precede la libertà ed è una responsabilità anarchica, senza principio e senza comando, scandita dall’ebraico hinneni, “eccomi”, con cui nella Torah si annuncia l’io, rispondendo di tutto e di tutti» (p. 153).

Una chiamata in campo della filosofia è espressa anche in un altro modo, all’apparenza strano. Si danno eventi che vanno qualificati come “filosofici”, nel senso che essi hanno una radicalità tale da illuminare un insieme di altri fatti sociali all’apparenza meno inquietanti. Riportiamo giusto qualche stralcio: il terrorista «diventa l’ombra oscura del filosofo» (p. 42), egli ha «un retroterra filosofico» (p. 48), la sua sfida «ha un’ampiezza filosofica» alla pari della Rivoluzione francese (p. 147); oggi la minaccia atomica viene dall’aria, e questo significa che «sotto l’aspetto filosofico l’aeronautica svolge un ruolo decisivo» (p. 39). Quegli eventi sono filosofici – così sembra doversi intendere – perché in essi il filosofo coglie in atto ciò che nell’esperienza umana è dimensione estrema, oltre ogni convenzione di vita o facile buon senso. Là egli deve apprendere e poi tradurre in parola quanto appreso.

Quale sarà l’ultima parola di questa riflessione che riguarda sia fatti sociali sia vissuti profondi? Ce lo dice l’ultima riga del libro: in questa nostra nuova “erranza globale”, piuttosto che cercare “artifici” difensivi «occorrerebbe rinunciare in modo incondizionato e definitivo a ogni sovranità» (p. 190). Giunto alla fine, il lettore si pone alcune domande che lasciamo volutamente aperte. Da un lato, è suggestiva la proposta di eliminare la violenta “sovranità”, ma per regolare le umili faccende umane non vi sarà bisogno di un più pacifico ma sempre pubblico “governo”? Ma è possibile pensare a una distinzione tra “sovranità” e “governo”? Dall’altro, la saggezza filosofica non dovrebbe essere affascinata anche dal complesso, dal molteplice della vita e della società, e non soltanto dalle punte estreme del terrore, magari scoperto proprio tra noi occidentali? Soltanto esse sarebbero illuminanti?

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