Terre senza promesse
Storie di rifugiati in Italia
Centro Astalli (ed.)
Avagliano, Roma 2011, pp. 114, € 12
«E così siamo partiti in cinquantatré: quarantotto somali più altri cinque provenienti da Ghana e Senegal. Eravamo su due gommoni. Uno si è rotto dopo due giorni di navigazione, non ho più avuto notizie delle persone a bordo. L’altro su cui viaggiavo si è fermato poco dopo per un’avaria al motore. [...] Varie navi ci sono passate vicine senza fermarsi ad aiutarci. Poi la guardia costiera tunisina ci ha fatto salire a bordo e ci ha portati in Tunisia. Dopo altri due mesi di tentativi dalla Tunisia siamo riusciti con una barca di legno ad arrivare a Lampedusa. [...] ero pronto a denunciare le condizioni tragiche del mio Paese e in particolare la sorte dei giornalisti somali. Mi sentivo investito di una missione importante: denunciare al mondo i soprusi e le violazioni dei diritti umani in Somalia. L’Italia mi sembrava un terreno fertile per questo tipo di denunce perché sapevo che Ilaria Alpi era diventata un simbolo dell’orrore somalo. [...] Purtroppo però non solo non ci hanno chiesto niente, ma neanche hanno voluto ascoltarci. Delusione, amarezza, erano i sentimenti di quei giorni nel centro di prima accoglienza a Lampedusa. L’inizio di un nuovo peregrinare, senza identità, con un passato che non interessa e con un futuro che nessuno è disposto a progettare con te. E adesso mi trovo in bilico tra quello che ero: giornalista alle prime armi in una dittatura e quello che sono: un ospite non gradito in una terra straniera, costretta a tollerarmi a causa di un documento in cui c’è scritto: rifugiato. A volte penso che più che del riconoscimento dello status di rifugiato, si tratta di un pezzo di carta che ti rende invisibile a tutti. [...] Se mi ferma un poliziotto per controllare i documenti, quando capisce che sono rifugiato, mi lascia andare facilmente, senza troppe domande. Durante un colloquio di lavoro, quando mostro il permesso di soggiorno, piegano il foglio di carta e me lo restituiscono inventando fandonie del tipo che essendo rifugiato non posso lavorare. A me sembra che qui in Italia noi rifugiati siamo soltanto un peso da sopportare, un dazio da pagare per restare nell’Unione Europea. La Convenzione di Ginevra non interessa a nessuno. Per chi, come me, è abituato a scrivere, le parole hanno sempre un significato preciso e so bene cosa vuol dire protezione internazionale. Ma qui in Italia questa espressione non ha senso: non mi considero in salvo e tanto meno al sicuro. Mi reputo un sopravissuto. Un marziano, talvolta. Sempre meno un giornalista.»
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