Mi sbagliavo. Speravo che il Trump presidente si rivelasse diverso dal Trump della campagna elettorale; auspicavo che potesse abbassare i toni e magari ammorbidire alcune delle sue posizioni. Invece martedì 24 gennaio il nuovo inquilino della Casa Bianca ha firmato una serie di provvedimenti di “politica industriale” a vantaggio di “chiunque voglia investire negli Stati Uniti”.
Tra questi ne spiccano (si fa per dire) due sul versante energetico. Il primo riguarda l’autorizzazione al completamento della costruzione del grande oleodotto, il Keystone XL, lungo quasi 2mila chilometri, e che farà scorrere 800mila barili di petrolio al giorno dalle sabbie bituminose del nord al confine con il Canada, al delta del Mississippi. La seconda firma è stata posta per riprendere i lavori di un altro oleodotto, il Dakota Access (1.172 miglia). Quest’ultimo era stato bloccato da Obama, anche per andare incontro alle richieste della popolazione indigena (la tribù Sioux di Standing Rock), visto che l’oleodotto danneggia le riserve naturali, terre sacre nella tradizione degli indiani d’America.
Nella logica decisionale di Trump le attuali regole ambientali statunitensi sono folli e non consentono garanzie certe a chi vuole fare investimenti. Premesso che Trump ha un debito elettorale con le compagnie petrolifere, e che si è sempre definito scettico sulle energie rinnovabili, vengono spontanee due riflessioni a margine di questi primi passi di politica energetica.
La prima è di carattere economico: l’amministrazione Obama aveva concluso che il Keystone XL non era particolarmente necessario, vista l’abbondanza di energia locale e a buon mercato. A quale fabbisogno energetico risponde la decisione di Trump, oggi che gli USA esportano sempre più il loro petrolio? In America i costi delle rinnovabili sono calati notevolmente negli ultimi anni e il più grande raffinatore di petrolio – il Texas – è diventato il leader nazionale di produzione di energia eolica.
La seconda riflessione non può che chiamare in causa la transizione energetica, cioè la necessità di utilizzare fonti a basso contenuto di carbonio (il petrolio non è tra queste) anche per far fronte ai cambiamenti climatici. Su questo versante, l’ordine esecutivo di Trump appare miope, se non scellerato. Non a caso, a poche ore dal suo giuramento, dal sito della Casa Bianca sono state rimosse tutte le informazioni sui cambiamenti climatici. “Useremo i ricavi della produzione di energia per ricostruire le nostre strade, scuole, ponti e infrastrutture pubbliche”, ha dichiarato il nuovo Presidente. Magari, viene da pensare, dopo che l’ennesimo fenomeno atmosferico estremo si sarà abbattuto sul già provato territorio statunitense. Già, signor Presidente, perché quelli che lei nega – i cambiamenti climatici – portano con sé Katrina, Sandy, Matthew… Chissà se almeno allora saprà ravvedersi?