«Sono più popolare di Disneyland». Questa frase – pronunciata dal Ted Bundy “fittizio” con agghiacciante convinzione – esemplifica non solo il concetto centrale di Ted Bundy - Fascino criminale ma l’essenza della fama di Bundy stesso, tuttora uno dei serial killer più noti nella storia degli Stati Uniti.
È una fascinazione che si estende ben oltre il contesto americano o questo specifico personaggio. Possiamo farla risalire fino al 1931, con M - Il mostro di Düsseldorf (ispirato ai crimini commessi da Fritz Haarmann e Peter Kürten nella Germania degli anni ’20), e anche oltre. Da allora, i prodotti audiovisivi dedicati a serial killer reali e personaggi controversi si sono moltiplicati a dismisura, per non parlare di quelli incentrati sulle vicende di criminali fittizi. Il fenomeno si è particolarmente intensificato negli ultimi anni, anche grazie all’ascesa nel mainstream di piattaforme come Netflix, Hulu, Amazon Prime, vere e proprie miniere per gli appassionati del genere crime, con migliaia di alternative tra cui scegliere.
Prendendo in esame gli ultimi cinque anni, ritroviamo numerosi esempi estremamente popolari, soprattutto per quanto riguarda le serie: Making a Murderer (2015), The People v. O. J. Simpson: American Crime Story (2016); Manhunt: Unabomber (2017), Mindhunter (2017), The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story (2018).
Alcuni di questi prodotti sono fedeli alla storia originale, altri sono più romanzati; alcuni si limitano a riportare i fatti in un modo relativamente oggettivo, mentre altri esprimono giudizi, impliciti ed espliciti, sul tema trattato. Il denominatore comune, comunque, è l’enorme spazio narrativo concesso a figure che sono ambigue nel migliore dei casi, criminali nel peggiore.
Qui risiede il dilemma etico centrale nel dibattito generato dal crescente interesse per i serial killer che ha recentemente investito la cultura popolare: qual è il modo più adeguato di raccontare storie i cui protagonisti sono persone che hanno distrutto vite e terrorizzato intere nazioni per anni, le cui vittime hanno molto spesso amici o familiari ancora in vita?
Molti sono i rischi: dall’indulgere a particolari tanto realistici quanto morbosi, al sottolineare troppo il punto di vista dell’assassino, mettendo in ombra la sofferenza delle sue vittime. È una conversazione complessa, a cui Ted Bundy - Fascino criminale non può sfuggire.
Il film inizia “alla fine”, per così dire: si apre, infatti, con un Ted Bundy (Zac Efron) che, dopo dieci anni di prigione, sta per essere giustiziato sulla sedia elettrica per i suoi crimini. Prima però ha luogo il suo ultimo incontro con l’ex fidanzata Elizabeth Kendall (Lily Collins).
Da qui, la storia si dispiega a ritroso, raccontando l’incarceramento di Bundy, le due fughe di prigione e il famoso processo (il primo nella storia degli Stati Uniti ad essere trasmesso in diretta televisiva) in cui Bundy si difese da solo, sfruttando la propria esperienza come ex studente di legge.
Un elemento fondamentale è, tuttavia, quasi completamente assente dal film: gli omicidi. Il film si concentra, invece, sulla sua figura pubblica: l’avvocato mancato, il perfetto fidanzato, il patrigno premuroso, l’uomo carismatico che spicca in una folla, ma che è anche in grado di passare del tutto inosservato. Questa scelta creativa, potenzialmente molto originale, finisce però per creare un’esperienza surreale per lo spettatore: la visione di un film il cui titolo originale è Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile (così i reati di Bundy furono definiti da Edward D. Cowart, il giudice che, nel 1989, lo condannò a morte), in cui tutti gli elementi “vili” sono stati censurati. L’obiettivo qui è, chiaramente, creare un senso di confusione nello spettatore, un dubbio pressante riguardo la colpevolezza di Bundy, ma queste omissioni provocano un brusco dislivello nel ritmo narrativo.
Questa scelta persegue tre obiettivi principali, due espliciti e uno implicito.
Gli obiettivi espliciti sono omettere alcune informazioni importanti per buona parte del film a scopo drammatico ed evidenziare quella che alla fine è la tesi centrale: è raro che un assassino “sembri” un assassino.
L’obiettivo implicito e, forse, il più problematico, sembra essere quello di “riscrivere” la figura di Elizabeth Kendall, quasi per renderla più passiva e marginale, allo scopo di giustificare la sua incrollabile fiducia in Bundy, che si fa sempre più assurda con l’aggravarsi delle circostanze e che, tra l’altro, non è del tutto fedele a quanto realmente accaduto; la Kendall affermò infatti di aver iniziato molto presto a sospettare del fidanzato.
Di conseguenza, pur guardando i fatti dagli occhi di Bundy stesso, come spettatori ne abbiamo la stessa scarsa conoscenza al pari della maggior parte del pubblico dell’epoca. È come se la verità fosse un twist drammatico da rivelare al momento opportuno, benché Bundy abbia confessato più di 30 omicidi prima della sua morte e sia attualmente sospettato di almeno altri settanta.
Quando finalmente il twist viene rivelato, è difficile identificarsi con la Kendall, provare la stessa devastante angoscia e, in seguito, lo stesso sollievo e senso di closure, perché, anche se vediamo che cosa prova, non capiamo mai che cosa pensa o sa, fino alla fine. La sua prospettiva è troppo inconsistente per essere immersiva; per buona parte del film, il nostro punto di riferimento è Bundy, il narratore inaffidabile che non si sofferma mai sulle azioni di cui lo sappiamo colpevole.
Se, quindi, lo scarto di prospettiva tra la Kendall e Bundy ha il vantaggio di rimarcare il punto fondamentale della personalità di quest’ultimo (quella terrificante capacità di separare le due “facce” – l’uomo e l’assassino – e dunque guardare ai propri reati come atti indicibili ma commessi da un’entità “altra” e incontrollabile), influisce però, inevitabilmente, sull’impatto emotivo degli eventi.
Nel tentativo di evitare una rappresentazione morbosa, si è caduti nell’errore opposto, “purificando” troppo la storia. Ciò di cui il film parla realmente è l’illusione di un uomo che ha saputo sfruttare il suo carisma per conquistare il supporto e l’ammirazione di milioni di persone, tra cui moltissime donne, e che era convinto di poter utilizzare gli stessi mezzi per evitare la prigione e, in estremo, la morte. Su questo non c’è alcun dubbio, ce lo confermano gli estratti del processo che corredano i titoli di coda: quelle che, inizialmente, possono sembrare licenze poetiche e drammatizzazioni finalizzate a movimentare la sceneggiatura, si rivelano invece fedeli riproduzioni di momenti realmente accaduti.
Le varie fonti e i filmati ci restituiscono l’immagine di un uomo intelligente, spiritoso e carismatico, tanto da convincere mezzo mondo della sua innocenza e, addirittura, ispirare diversi fan club a suo nome. L’immagine che ci è stata tramandata di Bundy nel corso degli anni è esattamente quella che vediamo nel film: un “personaggio”, non una persona. È la superficie, e il problema è che il film non ci permette di andare più a fondo. Così facendo, si genera un senso di camaraderie e, quasi, di empatia nei confronti di Bundy, rappresentato come un heartthrob e interpretato (non a caso) da uno dei più famosi Hollywood heartthrobs in circolazione; fisicamente attraente (più nel film che nella realtà) e popolare tra le donne, come segnalano numerose sequenze in cui lo vediamo camminare in mezzo a gruppi di ragazze che lo guardano con desiderio.
Ma da che cosa nasce questa “mania” per i serial killer? Perché li rendiamo protagonisti di libri, serie tv, film, documentari, persino podcast (come nel caso di Serial)? Perché siamo, al tempo stesso, disgustati e incuriositi dalle loro vite? Perché, soprattutto, tendiamo a rappresentarli come personaggi intriganti, spesso brillanti, che si sono semplicemente trovati dal lato sbagliato della legge? Perché guardiamo ai loro disturbi come anomalie generate da fattori genetici o traumi infantili, ignorando le responsabilità del contesto sociale o l’influenza dei media? E qual è il modo migliore di raccontare le loro storie?
Una soluzione si potrebbe trovare nella tesi centrale di Mindhunter, una delle serie crime più acclamate degli ultimi anni: basata su una storia vera, la prima stagione tratta le vicende di due agenti dell’FBI che dedicano la loro vita a studiare famosi criminali e serial killer, spesso anche tramite contatto diretto, lottando contro i limiti e i pregiudizi degli Stati Uniti degli anni ’70. Si tratta di un lavoro emotivamente gravoso, e presto uno dei due protagonisti ne diviene ossessionato. Si diffonde la convinzione che studiare queste personalità disturbate lo abbia portato, gradualmente, a provare troppa empatia per loro, con reali conseguenze sulla sua vita personale: i suoi colleghi iniziano a guardarlo con sospetto, la sua ragazza lo lascia, persino il suo partner disapprova. Lui stesso inizia a temere la propria fascinazione.
Ed è proprio questo il punto che Ted Bundy sembra non comprendere a fondo: è fin troppo facile riscrivere e rimaneggiare la “vera” storia per fini creativi, soccombendo alla tentazione di trasformare questi criminali in antieroi, redenti dai loro affetti e dalle loro vite pubbliche così simili alle nostre. Ma, nel creare un’illusione credibile per gli spettatori, bisogna fare molta attenzione a non farsi trascinare nell’illusione con loro.