Taxi Teheran

Jafar Panahi
Jafar Panahi Film Distribution Iran 2015 Docu-fiction Durata: 82 min.
Scheda di: 
Fascicolo: dicembre 2015
La trama del film


Un taxi, da cui salgono e scendono passeggeri di varia estrazione sociale, si muove lungo le strade della capitale iraniana in un giorno qualsiasi. Il conducente, lo stesso regista Jafar Panahi, mette così in scena attraverso i racconti dei suoi clienti le diverse posizioni sul regime e sulla società.


Il regista iraniano Jafar Panahi è stato arrestato nel 2010 per la partecipazione ai movimenti di protesta contro il regime. Oltre a essere punito con sei anni di reclusione più venti di interdizione all’espatrio, viene condannato anche a non realizzare più film. Ma Panahi, aggirando con intelligenza la censura che gli è stata imposta, è riuscito a girare clandestinamente ben tre film, confermandosi come uno dei casi più sorprendenti di cineasti che riescono a concepire forme nuove di racconto a causa delle limitazioni a cui sono sottoposti.

Le due prime pellicole, This Is Not a Film (2011) – che documenta uno dei suoi giorni di attesa del verdetto della Corte d’appello – e Closed Curtain (2012) – sulla condizione psicologica di un artista privato della propria libertà –, sono state prodotte in segreto all’interno di due abitazioni. Taxi Teheran sfrutta invece le possibilità sceniche di un taxi. Come ha commentato il presidente della giuria del Festival di Berlino 2015, il regista Darren Aronofsky, nel consegnare l’Orso d’oro a Jafar Panahi, che non ha potuto ritirarlo in quanto agli arresti domiciliari in Iran, «Le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore poiché gli permettono di superare se stesso. […] Invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo Paese e il suo pubblico».

L’esigenza di uscire dal confinamento a cui è stato costretto per i due film precedenti ha suggerito infatti a Panahi l’idea di uno spazio chiuso, ma a cui la città in qualche modo abbia accesso, e gli yellow cabs di Teheran si sono rivelati la soluzione ideale. Poiché girare un documentario avrebbe però implicato mettere in pericolo i passeggeri, il regista sceglie la forma della docu-fiction: tutto ciò che vediamo al di fuori del taxi è dunque reale, mentre ciò che si svolge al suo interno è frutto di una sceneggiatura. Guidare il veicolo attraverso la città si traduce per Panahi in una metafora di ciò che significa dirigere un film, e per questo il regista decide di interpretare il ruolo del conducente. La prima questione che la pellicola tocca riguarda dunque le possibilità e i modi con cui si può fare cinema – e, più in generale, trovare un mezzo di espressione – in un contesto repressivo e censorio come quello del regime teocratico iraniano, in cui la rigida applicazione della Shari’a non consente di poter esprimere liberamente il proprio pensiero né il proprio universo creativo.

L’inquadratura iniziale, dove compaiono più dispositivi di ripresa, rivela la presenza di più punti di vista e introduce con efficacia ciò che caratterizza tutto il film: la labilità dei confini tra realtà e finzione, tra humour e dramma. La prima immagine di Teheran offerta allo spettatore è un’inquadratura fissa su una strada attraversata da un’umanità comune, composta da volti e figure che si potrebbero incontrare in molte altre metropoli del globo. Saremmo portati a pensare che si tratti di una ripresa oggettiva, una di quelle inquadrature attraverso le quali un regista presenta allo spettatore l’ambiente in cui si svolge la narrazione. Invece, lungo il margine inferiore del quadro, si intravede il bordo di un cruscotto, che lascia presagire la presenza di un personaggio all’interno di un’automobile e, dunque, la natura soggettiva dell’inquadratura. A questo punto scatta una delle trovate più originali del film: mentre l’automobile procede e siamo convinti di guardare attraverso gli occhi del conducente, all’improvviso qualcuno sposta la camera, rompendo quel senso di immedesimazione che è alla base del cinema di finzione più classico. A indirizzare il nostro sguardo altrove è proprio l’autista, che inquadra il passeggero che gli sta accanto. Ma non c’è quasi il tempo di domandarsi la ragione di una videocamera sul cruscotto, perché la scena successiva svela il volto del conducente e il gioco in cui siamo coinvolti guardando il film. Nell’istante in cui Panahi si lascia inquadrare, la finzione viene esposta e la costruzione dichiarata: il taxi è il set, il tassista il regista, i clienti gli attori.

L’idea di utilizzare un’auto come cellula mobile attraverso la quale la realtà entra nello spazio cinematografico non è nuova (ricordiamo il film Dieci di un altro regista iraniano, Abbas Kiarostami, o il recente film di successo Locke di Steven Knight), ma dietro alla scelta di Panahi, oltre al peso delle restrizioni, si cela un presupposto teorico per lui fondamentale. L’avvicendamento dei passeggeri, infatti, sebbene sia frutto di una messa in scena, si offre come reale in quanto effetto di realtà, meccanismo narrativo capace di rivelare aspetti del vissuto che altrimenti rimarrebbero confusi nell’esperienza quotidiana. Questo significa che, se la finzione e la costruzione cinematografica sono al centro di Taxi Teheran, il ritratto della società iraniana che ne risulta è al contrario autentico, portatore di una verità.

I clienti che salgono e scendono dal taxi costituiscono i frammenti di un popolo dilaniato da profondi conflitti, che in superficie riguardano la sfera economica, ma che in realtà scendono in una più profonda dimensione etica personale. Illuminante in questo senso è il primo personaggio che Panahi fa salire in macchina, un giovane arrogante e sospettoso che discute con una donna rivendicando la necessità della pena capitale in caso di furto: la sua doppia morale viene rivelata alla fine del viaggio, quando l’uomo confessa di essere un borseggiatore. Il paradosso di un ladro che vorrebbe che la Shari’a fosse applicata solo sugli altri si riflette nella contraddittorietà di diverse figure, come il contrabbandiere di DVD pirata che descrive il proprio come un lavoro culturale; o le due anziane superstiziose convinte che la loro sopravvivenza sia legata a quella di due pesci rossi; o, ancora, la figura di un giovane che ambisce a fare il regista ma non ha alcuna idea del soggetto che vorrebbe filmare.

Di fronte a un simile caos, che anima tanto gli individui quanto il Paese, la speranza di una rigenerazione dell’Iran è idealmente riposta da Panahi nelle figure femminili. Il personaggio della nipotina del regista, Hana, che desidera seguire le orme dello zio partecipando a un concorso scolastico di cortometraggi, consente infatti di riflettere lucidamente sul rapporto tra autorità e libertà creativa. Se in Occidente l’assuefazione alle immagini spesso porta a sottovalutarne la forza persuasiva, in Iran è ancora profonda la consapevolezza del loro potere intrinseco: per questo il cinema rimane uno strumento di cui è necessario avere il pieno controllo per poter governare. Per questo motivo il regime teocratico ha predisposto una serie di regole – totalmente assurde ai nostri occhi – a cui un regista deve attenersi se vuole che la propria opera sia distribuibile: ogni personaggio positivo deve portare un nome islamico e non persiano, deve avere la barba ma non la cravatta; non possono essere mostrati contatti tra uomo e donna; e, soprattutto, è lecito parlare della realtà solo se è piacevole.

Persino una ragazzina come Hana sperimenta con la propria macchina l’inattuabilità di un film sottoposto a simili restrizioni. Infatti, mentre riprende la partenza di due giovani sposi, un ragazzino entra nell’inquadratura raccogliendo i soldi che questi hanno perso senza restituirglieli: com’è possibile raccontare la realtà in questo caso, come si può cancellare dal quadro non solo il furto ma anche la povertà del ragazzino che, subito dopo aver rubato i soldi, fruga tra i rifiuti per portare qualcosa da mangiare alla famiglia? Dialogando con lo zio, Hana realizza che nel Paese in cui vive non esiste una sola verità, perché accanto a quella imposta dal regime esiste quella proposta da persone come Panahi. E comprende che la scelta del punto di vista da assumere verso il mondo è anzitutto una questione etica. Non a caso il regista, sin dai suoi esordi, è stato un fermo sostenitore di quel sordido realismo sociale che il Governo vorrebbe mettere a tacere.

L’altra figura femminile che illumina la strada di Panahi è l’avvocato per la difesa dei diritti umani Nasrin Sotoudeh, che nel 2012 ha ricevuto assieme al regista il premio Sakharov per la libertà di pensiero dal Parlamento Europeo. Sul taxi, la donna parla del caso di Ghoncheh Ghavhami, una giovane arrestata e poi rilasciata nel 2014 per aver tentato di assistere a una partita di pallavolo della nazionale maschile iraniana, contrastando il divieto alle donne (successivamente abolito, almeno in parte) di assistere a manifestazioni sportive maschili.

Taxi Teheran tiene pertanto insieme un duplice registro. Oltre al diario personale con cui il regista ripercorre la propria filmografia – esplicitando la continuità di un discorso che porta avanti da più di un ventennio, come emerge dai titoli citati dai passeggeri (Il palloncino bianco del 1995, Lo specchio del 1997, Oro rosso del 2003, Offside del 2006) –, vi è un viaggio in profondità nella società iraniana contemporanea. Panahi riflette dunque sul proprio lavoro e sull’Iran, mettendo a confronto la sua opera con una maglia di costrizioni che nel corso del tempo ha cambiato forma, senza purtroppo indebolire il suo potere di divieto, efficacemente reso dal senso di claustrofobia trasmesso dal guardare la realtà esterna dall’interno di un taxi.


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