L’evasione fiscale è un fenomeno da combattere riscoprendo il valore di una buona politica fiscale, di un fisco equo ed efficiente, di una coscienza consapevole. In questo anche la Chiesa è chiamata ad assumere un ruolo importante, mettendo a disposizione il proprio patrimonio di riflessione e offrendo una testimonianza concreta.
L'evasione fiscale, fenomeno sempre presente, è tornata in prima
pagina, sia in seguito ai ripetuti blitz della Guardia
di Finanza, che hanno svelato non pochi illeciti, sia per le
dichiarazioni programmatiche del Governo su questa materia: il
risanamento del Paese sarebbe molto aiutato dal recupero
di risorse oggi occultate, riducendo il carico che grava sulle spalle di
tutti.
I dati sono a dir poco impressionanti, e non solo in Italia: secondo lo studio Closing the
European Tax Gap, commissionato dal gruppo socialista e democratico
al Parlamento europeo e pubblicato il 12 febbraio scorso, nell'UE i
mancati introiti pubblici a causa dell'evasione
fiscale ammontavano nel 2009 a 864 miliardi di euro. Una cifra superiore
all'intera spesa sanitaria dei Paesi UE, che, se recuperata,
rappresenterebbe ben più di una boccata
di ossigeno per gli Stati alle prese con gravi problemi fiscali. Secondo
lo stesso studio, l'Italia ha il record dell'evasione fiscale,
con 180 miliardi di euro sottratti
all'erario. La Germania, spesso indicata come modello di virtù, si
piazza al secondo posto con circa 160 miliardi di euro, seguita da
Francia (120 miliardi), Gran Bretagna
(74 miliardi) e Spagna (72 miliardi).
Sempre nel 2009, il deficit pubblico italiano ammontava a poco più di 71 miliardi di euro: ciò significa che, senza evasione
fiscale, si sarebbe registrato un avanzo. Se il nostro Paese eliminasse l'evasione, potrebbe azzerare il proprio debito pubblico (pari a poco meno di 1.900 miliardi di euro)
in circa 10 anni, senza manovre "lacrime e sangue".
Renderci
conto delle opportunità che dischiuderebbe la soluzione di questo enorme
problema, complesso
e antico anche se non insormontabile, impone di chiederci quali
potrebbero essere gli strumenti per affrontarlo. Vincenzo Visco, più
volte ministro delle Finanze, spiega
che l'insuccesso della lotta all'evasione è «inevitabile se si continua a
ritenere che l'evasione si combatte essenzialmente ex post, con gli
accertamenti (magari induttivi
come quelli basati sul redditometro), e non anche ex ante, con la deterrenza e la promozione sistematica dell'adempimento spontaneo» (Visco V., Intoccabili
evasori, in <www.lavoce.info>, 6 dicembre 2011).
La
deterrenza si basa soprattutto sul disegno tecnico del sistema fiscale:
la si ottiene se i contribuenti sono consapevoli
del fatto che il fisco può essere portato a conoscenza delle loro
attività o dei loro guadagni da parti terze; a questo è finalizzata la
tracciabilità
delle transazioni. Per l'adempimento spontaneo è necessario invece un
lavoro di promozione, di "conversione" dell'immaginario collettivo, per
cui può valere
la pena - come cercheremo di fare in questo contributo - di riprendere i
fondamenti di senso del sistema fiscale, dei diritti e doveri di
cittadinanza sanciti dalla Costituzione,
della stessa vita democratica. La Chiesa ha un ruolo importante a questo
riguardo, a livello tanto di patrimonio di riflessione, quanto di
testimonianza da offrire.
1. «Le tasse sono una cosa bellissima»
È rimasta famosa la frase pronunciata nel 2008 da Tommaso
Padoa-Schioppa, allora ministro dell'Economia del Governo Prodi:
«Dovremmo avere il coraggio di dire che
le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l'istruzione e l'ambiente
[...]
Ci può essere insoddisfazione sulla qualità dei servizi che si ricevono
in cambio, ma non un'opposizione di principio sul fatto che le tasse
esistono e che si debbano
pagare». Non era una provocazione, anche se all'epoca così fu
interpretata.
Consapevoli della distanza tra principi e realtà, e
soprattutto del fastidio che
comunque si prova a pagare le tasse, merita tornare a riflettere sul
senso profondo che giustifica l'esistenza del sistema fiscale.
a) Una cassa comune
Nel linguaggio comune il termine "fisco" è associato sostanzialmente
al prelievo e indica quel dispositivo istituzionale in base al quale una
certa quota del
reddito o del patrimonio dei cittadini viene trasferita, in forza di
legge e al limite con l'uso della forza, alla pubblica amministrazione.
Nel linguaggio degli economisti, però,
il termine assume un significato più vasto: politica fiscale indica non
solo il modo in cui lo Stato organizza il prelievo delle risorse, ma
anche - e soprattutto - il modo
in cui le impiega. Politica fiscale è innanzi tutto la gestione della spesa pubblica e, in modo ad essa strumentale, la risoluzione del problema del suo finanziamento.
Si
tratta quindi di andare oltre l'immagine di irriducibile ostilità del
sistema fiscale come macchina anonima di prelievo, più o meno
arbitrario, per creare, senza cadere
in semplificazioni ingenue, la coscienza diffusa del fisco come "cassa
comune" alla quale contribuire secondo la propria capacità - come
prescrive la Costituzione
- e dalla quale attingere per i bisogni di tutti e di ciascuno, in una
logica di reciprocità e di solidarietà. Risolvere la questione fiscale
non può prescindere
dal porre in primo piano il legame fra il prelievo, che è un mezzo, e la
spesa, che a sua volta è strumento per raggiungere finalità socialmente
utili.
La
fiscalità così concepita è questione intrinsecamente politica: riguarda
la definizione del bene comune e dei mezzi per raggiungerlo. Da ciò può
derivare una rappresentazione più adulta del sistema fiscale, inteso
come opportunità di spesa per un vantaggio condiviso e come strumento
essenziale per la promozione
di una convivenza più ricca e meglio partecipata.
b) Come è fatto un "buon fisco"
I principi che devono informare un buon sistema fiscale - enunciati
fin dalle origini della riflessione su questa disciplina economica,
nella seconda metà del XVIII secolo
- sono essenzialmente due.
Il primo è l'efficienza: il fisco è
efficiente quando distorce il meno possibile l'allocazione delle
risorse. Comunemente si intende
che occorre evitare le distorsioni irragionevoli e quindi
ingiustificate, mentre da sempre si è ritenuto legittimo utilizzare la
leva fiscale per disincentivare comportamenti
potenzialmente dannosi (si pensi alla tassazione sui consumi di tabacco e
alcolici) o per incentivare quelli ritenuti meritevoli (dal regime
fiscale del settore non profit, alle
agevolazioni alle imprese per investimenti di un certo tipo o in zone
determinate, alle detrazioni per le ristrutturazioni immobiliari che
consentono un risparmio energetico o per
l'acquisto di elettrodomestici a basso impatto ambientale).
Il secondo principio è l'equità:
il fisco è equo in primo luogo quando fa sì che
individui e gruppi simili vengano trattati nel modo più uguale o analogo
possibile. In secondo luogo, l'equità - almeno nella declinazione che
ne dà la Costituzione
italiana - richiede che chi è in condizioni di sostenere un sacrificio
più elevato contribuisca secondo criteri ragionevolmente progressivi.
A
questi principi si
aggiungono quelli della semplicità amministrativa (in modo da ridurre
sia il peso degli adempimenti da parte dei contribuenti, sia il costo di
esazione da parte dell'amministrazione
finanziaria), della trasparenza politica (promovendo la consapevolezza
dei contribuenti sulle ragioni, le finalità e i criteri di ripartizione
del carico fiscale) e della
flessibilità (cioè della facilità a reagire, al limite in modo
"automatico", al mutamento delle condizioni economiche, in particolare
per poter svolgere
efficacemente la funzione di stabilizzazione del sistema economico).
c) Gli effetti sperati
Un buon sistema fiscale, che contrasti e riduca le disuguaglianze
sociali, è di sostegno concreto a tutto ciò che è orientato alla
costruzione del Paese;
è strumento e condizione di sviluppo economico e garanzia di benessere e di coesione sociale.
Un fisco correttamente impostato infatti sollecita l'imprenditorialità,
incentiva la formazione del risparmio da parte degli individui e delle
famiglie, è un elemento cruciale per la crescita del reddito e per
l'occupazione nel lungo periodo.
Da esso dipendono il rendimento positivo delle istituzioni politiche,
l'efficiente funzionamento dell'amministrazione, l'efficacia dell'azione
di governo. Un buon fisco, alimentando
il consenso dei cittadini e rafforzando i vincoli di lealtà politica, è
espressione significativa della costante validità e vitalità di ciò che
fonda una convivenza politica, in quanto stringe governati e governanti
in un rapporto di obbligazione mutua. Inoltre, rappresenta un ponte tra
il presente e il futuro, tra le generazioni
di oggi e di domani.
2. Obiezioni antiche e sempre nuove
A questi principi si oppone un armamentario altrettanto articolato e
antico - potremmo dire "classico" - di obiezioni e giustificazioni che
puntano a legittimare il
mancato pagamento delle tasse o a sminuirne la gravità, penale e anche
morale. Aggiornamenti Sociali le passava acutamente in rassegna
già in un articolo del
1953 (Fezzi L., «Fisco e coscienza», 10 [1953] 321-334 e 11 [1953]
361-374), ma ritornano puntualmente, anche se cambiano il lessico e gli
slogan con cui sono espresse.
In vario modo investono sia i principi alla base del sistema fiscale, sia il suo malfunzionamento pratico.
Così,
in forza di principi più o meno consapevolmente
libertari, si afferma che le tasse sono ingiuste e non basta la legge
statale a renderle giuste, assolutizzando in questo modo il diritto di
proprietà e svincolandolo dalla
destinazione universale dei beni. Oppure si afferma che i criteri di
tassazione sono ingiusti o che la politica fiscale non risponde davvero
alla promozione del bene comune: su
queste materie la diversità di opinioni è certamente lecita, ad esempio
sulla base di differenti concezioni di giustizia, e non mancano casi in
cui questo è
vero (ad esempio il trattamento fiscale delle famiglie nel nostro
Paese). Ma anche in campo fiscale non è ammissibile la scorciatoia di "farsi giustizia da soli",
ristabilendo di nascosto l'equità che si ritiene violata. In una società
democratica la strada maestra per raggiungere questo fine è la
costruzione di un consenso
politico attorno a un progetto di riforma fiscale.
A un altro livello
si sottolinea che lo Stato "ruba" o spreca i soldi che con fatica i
cittadini hanno guadagnato,
oppure che il carico fiscale è esagerato e grava sempre sui pochi
onesti. Sono obiezioni che possono avere una parte di verità. La
concretezza del sistema fiscale
infatti può non attuare pienamente i principi a cui si ispira: ad
esempio, un livello di imposizione fiscale così alto da scoraggiare
l'attività economica rappresenta
un controsenso in termini di promozione del bene comune. Ugualmente
esistono casi di sprechi e inefficienze nella gestione della spesa
pubblica. Tuttavia queste obiezioni tendono
a non riconoscere quanto il lavoro di ciascuno è facilitato da una serie
di infrastrutture e dispositivi (dalle strade, alla sanità, alla
giustizia, alla previdenza)
il cui finanziamento è a carico dello Stato.
In ogni caso, però, lo
scandalo che a ragione o a torto ne deriva, potrebbe e dovrebbe spingere
nella direzione delle
riforme, e non della legittimazione di scorciatoie individualiste come
l'evasione fiscale. Questa, ben lungi dall'essere un modo di ristabilire
ciò che è giusto, risolve
eventualmente il problema solo al livello del singolo evasore, e non dei
tanti altri che sopportano le medesime "ingiustizie" senza evadere.
Anzi, l'evasione, com'è
noto, aumenta il carico sulle spalle dei "soliti" e, quindi, il livello di ingiustizia complessiva: a dimostrazione del fatto che certe affermazioni di principio sono
solo un paravento per nascondere il desiderio di fare più liberamente i propri interessi.
Dietro
tutte queste obiezioni opera una deriva particolarmente pericolosa,
perché
legittima comportamenti illegali, indebolisce il senso di
corresponsabilità verso la comunità e il legame sociale e diffonde una
corrosiva sfiducia verso le istituzioni
democratiche, a partire dagli organi rappresentativi, che storicamente
sono nati (nell'Inghilterra medievale) anche con lo scopo di evitare che
il fisco (del sovrano assoluto) strangolasse
i cittadini.
Inevitabile è il ricorso alla coscienza di ciascun
cittadino. Compilare la dichiarazione dei redditi o emettere uno
scontrino fiscale sono atti con una precisa
valenza etica, di cui si è responsabili di fronte a se stessi prima che
alla Guardia di Finanza. E in materia fiscale è richiesta a ciascuno una
vigilanza particolare,
perché è troppo facile scivolare nell'autocondiscendenza. Non è un caso che la Costituzione, in questo senso autentico presidio di etica pubblica, escluda
la materia tributaria da quelle su cui è possibile proporre un referendum popolare.
3. Partecipazione dei cittadini, credibilità delle istituzioni
Rispondere efficacemente alle obiezioni, che è la chiave per la
promozione dell'adempimento spontaneo della contribuzione, richiede
perciò di uscire dal campo strettamente
fiscale.
In particolare, la questione va reinserita nel circuito
virtuoso della partecipazione e della cittadinanza attiva che sta
lentamente riprendendo piede nel nostro Paese,
grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione, ma di cui le tasse
rappresentano certamente uno degli elementi meno "alla moda". In realtà
pagare le tasse (e il dibattito
politico a ciò legato) è un modo concreto per concorrere al processo di
formazione e redistribuzione delle risorse grazie alle quali promuovere
la convivenza civile,
e non un ostacolo o un limite allo sviluppo delle sue potenzialità.
Questo richiede però che le persone si considerino - e siano considerate
dal fisco - come cittadini
attivi, titolari di diritti e doveri, piuttosto che come contribuenti
detentori di basi imponibili, cioè di risorse da sottoporre a prelievo.
Altrettanto
importante
è un rinnovamento della mentalità comune rispetto alla concezione di ciò
che è pubblico e del rapporto che ciascun cittadino intrattiene con
esso. Decenni
di ideologia liberista e di retorica delle privatizzazioni hanno
connotato in modo unilateralmente negativo il termine "pubblico", che
però non è sinonimo
né di "statale", né di assistenzialismo, né di sprechi parassitari. È
invece una dimensione fondamentale di cui riappropriarci, a partire
dall'assunzione
di una condivisa responsabilità nei confronti di ogni membro della
comunità e del Paese in cui viviamo. Certamente questo non sarà
possibile se non si riattivano
al più presto i canali di comunicazione tra società civile e mondo
politico, e i circuiti della rappresentanza: la protesta, anche quando è
legittima, si incattivisce
quando non trova spazi per trasformarsi in proposta.
Dal punto di
vista di chi governa, invece, l'azione tecnica di lotta all'evasione non
può non essere accompagnata
da un'azione politica che faccia terra bruciata attorno ai pretesti che
contribuiscono a giustificarla. Il riemergere del fenomeno della
corruzione di chi ricopre cariche politiche,
per quanto probabilmente mai scomparso e in questi giorni tornato
protagonista dei titoli dei giornali, rappresenta in questo senso un
segnale d'allarme: la corruzione e l'evasione
fiscale rispondono alla stessa logica individualista di asservimento di
ciò che è pubblico al tornaconto privato. Cittadini evasori non possono
in buona coscienza
lamentarsi di essere governati da politici corrotti - al massimo li
potranno invidiare -, ma se ne servono come paravento, in una spirale
che rischia pericolosamente di avvitarsi
su se stessa.
Gli strumenti per incidere significativamente
sull'evasione ci sono, come dimostrano i successi che periodicamente
vengono ottenuti, soprattutto quando è
autentica la volontà politica di raggiungerli. Adesso c'è bisogno di
questi risultati, altrimenti la perdita di credibilità dello Stato sarà
irreversibile.
E un Paese poco credibile e molto indebitato è destinato a un
fallimento.
4. E la Chiesa in tutto questo?
Pur ribadendo il dovere sociale di contribuire al bene comune secondo le proprie possibilità (
Gaudium et spes,
n. 30), la Chiesa non ha speso in passato molte parole
sull'evasione delle tasse: «Quello fiscale è un settore molto poco
studiato in campo morale, anche dagli specialisti della morale
cattolica», segnalava già
qualche anno fa la rivista
Civiltà Cattolica (Salvini G.P., «Sistema fiscale ed etica», 2006 [I] 561-571). La situazione non è molto cambiata e
la Chiesa sembra sempre affrontare il tema con una certa esitazione.
È
sicuramente positiva la recente dichiarazione del card. Angelo Bagnasco
che «evadere
le tasse è peccato», come pure la disponibilità a mettere in discussione
il regime di favore fiscale per alcuni immobili della Chiesa. Ma anche
questo non è
sufficiente, perché l'evasione fiscale non è un furto come altri: è una
azione che mina il fondamento della vita sociale. Su un tema tanto
delicato quanto complesso,
occorre essere limpidi e coerenti.
A parte gli errori gestionali
commessi per incompetenza - sebbene l'ignoranza colpevole non sia una
scusante - da chi gestisce gli "affari
economici" di realtà e iniziative ecclesiali, nella pratica gli uomini
di Chiesa hanno talvolta aggiunto, con maggiore o minore ingenuità,
un'altra giustificazione
dell'evasione non meno errata e dannosa delle precedenti: quella "a fin di bene",
per garantire attività con finalità sociali. Nemmeno in questo caso
si può arrivare a una giustizia "fai da te". È invece importante
lottare, anche politicamente, perché siano riconosciute e agevolate
fiscalmente le
attività con cui la Chiesa e tante altre associazioni laiche o di altre
confessioni contribuiscono al bene comune.
Anzi, è giunto il momento di trovare il coraggio
di compiere gesti profetici, che mettano il patrimonio della Chiesa a servizio del bene comune, in
un'ottica di solidarietà e carità istituzionale che sappia trascendere
le esigenze pur legittime della stretta giustizia: qualcosa, in
termini classici, di supererogatorio. Gli stimoli in questo senso non
mancano. Già il Concilio, 50 anni
fa, affermava che la Chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi
offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinuncerà all'esercizio di
certi diritti legittimamente
acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della
sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre
disposizioni» (
Gaudium
et spes, n. 76). Pochi mesi fa Benedetto XVI, nel discorso al
Parlamento tedesco a cui il nostro pensiero continua a tornare,
sottolineava come questo non può essere
frutto di una strategia di immagine, ma è una essenziale testimonianza
di libertà nella verità.