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Tasse: lo sforzo condiviso della partecipazione

L’evasione fiscale è un fenomeno da combattere riscoprendo il valore di una buona politica fiscale, di un fisco equo ed efficiente, di una coscienza consapevole. In questo anche la Chiesa è chiamata ad assumere un ruolo importante, mettendo a disposizione il proprio patrimonio di riflessione e offrendo una testimonianza concreta.
Fascicolo: aprile 2012

L'evasione fiscale, fenomeno sempre presente, è tornata in prima pagina, sia in seguito ai ripetuti blitz della Guardia di Finanza, che hanno svelato non pochi illeciti, sia per le dichiarazioni programmatiche del Governo su questa materia: il risanamento del Paese sarebbe molto aiutato dal recupero di risorse oggi occultate, riducendo il carico che grava sulle spalle di tutti.
I dati sono a dir poco impressionanti, e non solo in Italia: secondo lo studio Closing the European Tax Gap, commissionato dal gruppo socialista e democratico al Parlamento europeo e pubblicato il 12 febbraio scorso, nell'UE i mancati introiti pubblici a causa dell'evasione fiscale ammontavano nel 2009 a 864 miliardi di euro. Una cifra superiore all'intera spesa sanitaria dei Paesi UE, che, se recuperata, rappresenterebbe ben più di una boccata di ossigeno per gli Stati alle prese con gravi problemi fiscali. Secondo lo stesso studio, l'Italia ha il record dell'evasione fiscale, con 180 miliardi di euro sottratti all'erario. La Germania, spesso indicata come modello di virtù, si piazza al secondo posto con circa 160 miliardi di euro, seguita da Francia (120 miliardi), Gran Bretagna (74 miliardi) e Spagna (72 miliardi).
Sempre nel 2009, il deficit pubblico italiano ammontava a poco più di 71 miliardi di euro: ciò significa che, senza evasione fiscale, si sarebbe registrato un avanzo. Se il nostro Paese eliminasse l'evasione, potrebbe azzerare il proprio debito pubblico (pari a poco meno di 1.900 miliardi di euro) in circa 10 anni, senza manovre "lacrime e sangue".
Renderci conto delle opportunità che dischiuderebbe la soluzione di questo enorme problema, complesso e antico anche se non insormontabile, impone di chiederci quali potrebbero essere gli strumenti per affrontarlo. Vincenzo Visco, più volte ministro delle Finanze, spiega che l'insuccesso della lotta all'evasione è «inevitabile se si continua a ritenere che l'evasione si combatte essenzialmente ex post, con gli accertamenti (magari induttivi come quelli basati sul redditometro), e non anche ex ante, con la deterrenza e la promozione sistematica dell'adempimento spontaneo» (Visco V., Intoccabili evasori, in <www.lavoce.info>, 6 dicembre 2011).
La deterrenza si basa soprattutto sul disegno tecnico del sistema fiscale: la si ottiene se i contribuenti sono consapevoli del fatto che il fisco può essere portato a conoscenza delle loro attività o dei loro guadagni da parti terze; a questo è finalizzata la tracciabilità delle transazioni. Per l'adempimento spontaneo è necessario invece un lavoro di promozione, di "conversione" dell'immaginario collettivo, per cui può valere la pena - come cercheremo di fare in questo contributo - di riprendere i fondamenti di senso del sistema fiscale, dei diritti e doveri di cittadinanza sanciti dalla Costituzione, della stessa vita democratica. La Chiesa ha un ruolo importante a questo riguardo, a livello tanto di patrimonio di riflessione, quanto di testimonianza da offrire.

1. «Le tasse sono una cosa bellissima»

È rimasta famosa la frase pronunciata nel 2008 da Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell'Economia del Governo Prodi: «Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l'istruzione e l'ambiente [...] Ci può essere insoddisfazione sulla qualità dei servizi che si ricevono in cambio, ma non un'opposizione di principio sul fatto che le tasse esistono e che si debbano pagare». Non era una provocazione, anche se all'epoca così fu interpretata.
Consapevoli della distanza tra principi e realtà, e soprattutto del fastidio che comunque si prova a pagare le tasse, merita tornare a riflettere sul senso profondo che giustifica l'esistenza del sistema fiscale.

   a) Una cassa comune

Nel linguaggio comune il termine "fisco" è associato sostanzialmente al prelievo e indica quel dispositivo istituzionale in base al quale una certa quota del reddito o del patrimonio dei cittadini viene trasferita, in forza di legge e al limite con l'uso della forza, alla pubblica amministrazione. Nel linguaggio degli economisti, però, il termine assume un significato più vasto: politica fiscale indica non solo il modo in cui lo Stato organizza il prelievo delle risorse, ma anche - e soprattutto - il modo in cui le impiega. Politica fiscale è innanzi tutto la gestione della spesa pubblica e, in modo ad essa strumentale, la risoluzione del problema del suo finanziamento.
Si tratta quindi di andare oltre l'immagine di irriducibile ostilità del sistema fiscale come macchina anonima di prelievo, più o meno arbitrario, per creare, senza cadere in semplificazioni ingenue, la coscienza diffusa del fisco come "cassa comune" alla quale contribuire secondo la propria capacità - come prescrive la Costituzione - e dalla quale attingere per i bisogni di tutti e di ciascuno, in una logica di reciprocità e di solidarietà. Risolvere la questione fiscale non può prescindere dal porre in primo piano il legame fra il prelievo, che è un mezzo, e la spesa, che a sua volta è strumento per raggiungere finalità socialmente utili.
La fiscalità così concepita è questione intrinsecamente politica: riguarda la definizione del bene comune e dei mezzi per raggiungerlo. Da ciò può derivare una rappresentazione più adulta del sistema fiscale, inteso come opportunità di spesa per un vantaggio condiviso e come strumento essenziale per la promozione di una convivenza più ricca e meglio partecipata.

   b) Come è fatto un "buon fisco"

I principi che devono informare un buon sistema fiscale - enunciati fin dalle origini della riflessione su questa disciplina economica, nella seconda metà del XVIII secolo - sono essenzialmente due.
Il primo è l'efficienza: il fisco è efficiente quando distorce il meno possibile l'allocazione delle risorse. Comunemente si intende che occorre evitare le distorsioni irragionevoli e quindi ingiustificate, mentre da sempre si è ritenuto legittimo utilizzare la leva fiscale per disincentivare comportamenti potenzialmente dannosi (si pensi alla tassazione sui consumi di tabacco e alcolici) o per incentivare quelli ritenuti meritevoli (dal regime fiscale del settore non profit, alle agevolazioni alle imprese per investimenti di un certo tipo o in zone determinate, alle detrazioni per le ristrutturazioni immobiliari che consentono un risparmio energetico o per l'acquisto di elettrodomestici a basso impatto ambientale).
Il secondo principio è l'equità: il fisco è equo in primo luogo quando fa sì che individui e gruppi simili vengano trattati nel modo più uguale o analogo possibile. In secondo luogo, l'equità - almeno nella declinazione che ne dà la Costituzione italiana - richiede che chi è in condizioni di sostenere un sacrificio più elevato contribuisca secondo criteri ragionevolmente progressivi.
A questi principi si aggiungono quelli della semplicità amministrativa (in modo da ridurre sia il peso degli adempimenti da parte dei contribuenti, sia il costo di esazione da parte dell'amministrazione finanziaria), della trasparenza politica (promovendo la consapevolezza dei contribuenti sulle ragioni, le finalità e i criteri di ripartizione del carico fiscale) e della flessibilità (cioè della facilità a reagire, al limite in modo "automatico", al mutamento delle condizioni economiche, in particolare per poter svolgere efficacemente la funzione di stabilizzazione del sistema economico).

   c) Gli effetti sperati

Un buon sistema fiscale, che contrasti e riduca le disuguaglianze sociali, è di sostegno concreto a tutto ciò che è orientato alla costruzione del Paese; è strumento e condizione di sviluppo economico e garanzia di benessere e di coesione sociale. Un fisco correttamente impostato infatti sollecita l'imprenditorialità, incentiva la formazione del risparmio da parte degli individui e delle famiglie, è un elemento cruciale per la crescita del reddito e per l'occupazione nel lungo periodo. Da esso dipendono il rendimento positivo delle istituzioni politiche, l'efficiente funzionamento dell'amministrazione, l'efficacia dell'azione di governo. Un buon fisco, alimentando il consenso dei cittadini e rafforzando i vincoli di lealtà politica, è espressione significativa della costante validità e vitalità di ciò che fonda una convivenza politica, in quanto stringe governati e governanti in un rapporto di obbligazione mutua. Inoltre, rappresenta un ponte tra il presente e il futuro, tra le generazioni di oggi e di domani.

2. Obiezioni antiche e sempre nuove

A questi principi si oppone un armamentario altrettanto articolato e antico - potremmo dire "classico" - di obiezioni e giustificazioni che puntano a legittimare il mancato pagamento delle tasse o a sminuirne la gravità, penale e anche morale. Aggiornamenti Sociali le passava acutamente in rassegna già in un articolo del 1953 (Fezzi L., «Fisco e coscienza», 10 [1953] 321-334 e 11 [1953] 361-374), ma ritornano puntualmente, anche se cambiano il lessico e gli slogan con cui sono espresse. In vario modo investono sia i principi alla base del sistema fiscale, sia il suo malfunzionamento pratico.
Così, in forza di principi più o meno consapevolmente libertari, si afferma che le tasse sono ingiuste e non basta la legge statale a renderle giuste, assolutizzando in questo modo il diritto di proprietà e svincolandolo dalla destinazione universale dei beni. Oppure si afferma che i criteri di tassazione sono ingiusti o che la politica fiscale non risponde davvero alla promozione del bene comune: su queste materie la diversità di opinioni è certamente lecita, ad esempio sulla base di differenti concezioni di giustizia, e non mancano casi in cui questo è vero (ad esempio il trattamento fiscale delle famiglie nel nostro Paese). Ma anche in campo fiscale non è ammissibile la scorciatoia di "farsi giustizia da soli", ristabilendo di nascosto l'equità che si ritiene violata. In una società democratica la strada maestra per raggiungere questo fine è la costruzione di un consenso politico attorno a un progetto di riforma fiscale.
A un altro livello si sottolinea che lo Stato "ruba" o spreca i soldi che con fatica i cittadini hanno guadagnato, oppure che il carico fiscale è esagerato e grava sempre sui pochi onesti. Sono obiezioni che possono avere una parte di verità. La concretezza del sistema fiscale infatti può non attuare pienamente i principi a cui si ispira: ad esempio, un livello di imposizione fiscale così alto da scoraggiare l'attività economica rappresenta un controsenso in termini di promozione del bene comune. Ugualmente esistono casi di sprechi e inefficienze nella gestione della spesa pubblica. Tuttavia queste obiezioni tendono a non riconoscere quanto il lavoro di ciascuno è facilitato da una serie di infrastrutture e dispositivi (dalle strade, alla sanità, alla giustizia, alla previdenza) il cui finanziamento è a carico dello Stato.
In ogni caso, però, lo scandalo che a ragione o a torto ne deriva, potrebbe e dovrebbe spingere nella direzione delle riforme, e non della legittimazione di scorciatoie individualiste come l'evasione fiscale. Questa, ben lungi dall'essere un modo di ristabilire ciò che è giusto, risolve eventualmente il problema solo al livello del singolo evasore, e non dei tanti altri che sopportano le medesime "ingiustizie" senza evadere. Anzi, l'evasione, com'è noto, aumenta il carico sulle spalle dei "soliti" e, quindi, il livello di ingiustizia complessiva: a dimostrazione del fatto che certe affermazioni di principio sono solo un paravento per nascondere il desiderio di fare più liberamente i propri interessi.
Dietro tutte queste obiezioni opera una deriva particolarmente pericolosa, perché legittima comportamenti illegali, indebolisce il senso di corresponsabilità verso la comunità e il legame sociale e diffonde una corrosiva sfiducia verso le istituzioni democratiche, a partire dagli organi rappresentativi, che storicamente sono nati (nell'Inghilterra medievale) anche con lo scopo di evitare che il fisco (del sovrano assoluto) strangolasse i cittadini.
Inevitabile è il ricorso alla coscienza di ciascun cittadino. Compilare la dichiarazione dei redditi o emettere uno scontrino fiscale sono atti con una precisa valenza etica, di cui si è responsabili di fronte a se stessi prima che alla Guardia di Finanza. E in materia fiscale è richiesta a ciascuno una vigilanza particolare, perché è troppo facile scivolare nell'autocondiscendenza. Non è un caso che la Costituzione, in questo senso autentico presidio di etica pubblica, escluda la materia tributaria da quelle su cui è possibile proporre un referendum popolare.

3. Partecipazione dei cittadini, credibilità delle istituzioni

Rispondere efficacemente alle obiezioni, che è la chiave per la promozione dell'adempimento spontaneo della contribuzione, richiede perciò di uscire dal campo strettamente fiscale.
In particolare, la questione va reinserita nel circuito virtuoso della partecipazione e della cittadinanza attiva che sta lentamente riprendendo piede nel nostro Paese, grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione, ma di cui le tasse rappresentano certamente uno degli elementi meno "alla moda". In realtà pagare le tasse (e il dibattito politico a ciò legato) è un modo concreto per concorrere al processo di formazione e redistribuzione delle risorse grazie alle quali promuovere la convivenza civile, e non un ostacolo o un limite allo sviluppo delle sue potenzialità. Questo richiede però che le persone si considerino - e siano considerate dal fisco - come cittadini attivi, titolari di diritti e doveri, piuttosto che come contribuenti detentori di basi imponibili, cioè di risorse da sottoporre a prelievo.
Altrettanto importante è un rinnovamento della mentalità comune rispetto alla concezione di ciò che è pubblico e del rapporto che ciascun cittadino intrattiene con esso. Decenni di ideologia liberista e di retorica delle privatizzazioni hanno connotato in modo unilateralmente negativo il termine "pubblico", che però non è sinonimo né di "statale", né di assistenzialismo, né di sprechi parassitari. È invece una dimensione fondamentale di cui riappropriarci, a partire dall'assunzione di una condivisa responsabilità nei confronti di ogni membro della comunità e del Paese in cui viviamo. Certamente questo non sarà possibile se non si riattivano al più presto i canali di comunicazione tra società civile e mondo politico, e i circuiti della rappresentanza: la protesta, anche quando è legittima, si incattivisce quando non trova spazi per trasformarsi in proposta.
Dal punto di vista di chi governa, invece, l'azione tecnica di lotta all'evasione non può non essere accompagnata da un'azione politica che faccia terra bruciata attorno ai pretesti che contribuiscono a giustificarla. Il riemergere del fenomeno della corruzione di chi ricopre cariche politiche, per quanto probabilmente mai scomparso e in questi giorni tornato protagonista dei titoli dei giornali, rappresenta in questo senso un segnale d'allarme: la corruzione e l'evasione fiscale rispondono alla stessa logica individualista di asservimento di ciò che è pubblico al tornaconto privato. Cittadini evasori non possono in buona coscienza lamentarsi di essere governati da politici corrotti - al massimo li potranno invidiare -, ma se ne servono come paravento, in una spirale che rischia pericolosamente di avvitarsi su se stessa.
Gli strumenti per incidere significativamente sull'evasione ci sono, come dimostrano i successi che periodicamente vengono ottenuti, soprattutto quando è autentica la volontà politica di raggiungerli. Adesso c'è bisogno di questi risultati, altrimenti la perdita di credibilità dello Stato sarà irreversibile. E un Paese poco credibile e molto indebitato è destinato a un fallimento.

4. E la Chiesa in tutto questo?

Pur ribadendo il dovere sociale di contribuire al bene comune secondo le proprie possibilità (Gaudium et spes, n. 30), la Chiesa non ha speso in passato molte parole sull'evasione delle tasse: «Quello fiscale è un settore molto poco studiato in campo morale, anche dagli specialisti della morale cattolica», segnalava già qualche anno fa la rivista Civiltà Cattolica (Salvini G.P., «Sistema fiscale ed etica», 2006 [I] 561-571). La situazione non è molto cambiata e la Chiesa sembra sempre affrontare il tema con una certa esitazione.
È sicuramente positiva la recente dichiarazione del card. Angelo Bagnasco che «evadere le tasse è peccato», come pure la disponibilità a mettere in discussione il regime di favore fiscale per alcuni immobili della Chiesa. Ma anche questo non è sufficiente, perché l'evasione fiscale non è un furto come altri: è una azione che mina il fondamento della vita sociale. Su un tema tanto delicato quanto complesso, occorre essere limpidi e coerenti.
A parte gli errori gestionali commessi per incompetenza - sebbene l'ignoranza colpevole non sia una scusante - da chi gestisce gli "affari economici" di realtà e iniziative ecclesiali, nella pratica gli uomini di Chiesa hanno talvolta aggiunto, con maggiore o minore ingenuità, un'altra giustificazione dell'evasione non meno errata e dannosa delle precedenti: quella "a fin di bene", per garantire attività con finalità sociali. Nemmeno in questo caso si può arrivare a una giustizia "fai da te". È invece importante lottare, anche politicamente, perché siano riconosciute e agevolate fiscalmente le attività con cui la Chiesa e tante altre associazioni laiche o di altre confessioni contribuiscono al bene comune.
Anzi, è giunto il momento di trovare il coraggio di compiere gesti profetici, che mettano il patrimonio della Chiesa a servizio del bene comune, in un'ottica di solidarietà e carità istituzionale che sappia trascendere le esigenze pur legittime della stretta giustizia: qualcosa, in termini classici, di supererogatorio. Gli stimoli in questo senso non mancano. Già il Concilio, 50 anni fa, affermava che la Chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinuncerà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et spes, n. 76). Pochi mesi fa Benedetto XVI, nel discorso al Parlamento tedesco a cui il nostro pensiero continua a tornare, sottolineava come questo non può essere frutto di una strategia di immagine, ma è una essenziale testimonianza di libertà nella verità.
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