Spingevo la carrozzina della mia primogenita (allora neonata) quando incontrai un’amica, che non rivedevo da anni: “È tua? Brava, hai pagato il tuo debito con la natura!”
Il suo commento mi torna spesso in mente quando, ad esempio, leggo che in Italia il numero medio di figli per donna è di 1,37 – mentre la soglia di sostituzione dovrebbe essere di 2,1 figli cadauna – oppure quando provo a capire cosa può significare un Fertility Day. Giorno che si "celebrerà" domani, 22 settembre, ma di cui in realtà si parla da un mesetto, grazie alla (poco felice) campagna comunicativa del Ministero della Salute, che tanto ha fatto scalpore a fine estate. Non entrerò nel merito delle clessidre che avrebbero dovuto richiamare lo scorrere del tempo biologico delle donne (ora sostituite da un nodo rosso, simbolo del #fertilityday). Né vorrei in alcun modo urtare la sensibilità di quanti vivono situazioni di disagio e sofferenza in merito, ma proporre qui una riflessione più ampia, con una premessa.
La premessa: ben vengano azioni mirate a educare le giovani generazioni che non si possono avere figli a comando, che la “finestra fertile” femminile è limitata nel tempo (si riduce drasticamente dopo i 35 anni), che spermatozoi e ovociti risentono di stili di vita scorretti (come il fumo e alcool), che le tecniche di procreazione medicalmente assistita possono aiutare la fertilità naturale, ma non fanno miracoli. Tutto da sapere e ricordare, ma non basta.
E qui provo a balbettare una riflessione più ampia.
Quando erano giovani, i nostri nonni procreavano quando erano in procinto di partire per le campagne militari in Russia o in Africa, quando la precarietà non era solo lavorativa, ma di vita (o di morte), quando l’obiettivo era sfamare le nuove bocche, non garantirgli livelli standard di benessere. Eppure il contesto sociale e la struttura famigliare erano diversi, si poteva contare su reti di supporto talmente efficienti da far impallidire il miglior welfare del ventesimo secolo.
Il 13 settembre scorso il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione
“Creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all'equilibrio tra vita privata e vita professionale”. Per la prima volta la conciliazione viene riconosciuta come un diritto, affermando che le politiche di conciliazione, per essere efficaci, devono essere un mix di elementi diversi e devono coprire le esigenze delle famiglie lungo il ciclo di vita, dalla nascita dei figli all’assistenza ai genitori anziani. Non basta concentrarsi sugli asili nido (servono, eccome), ma sarebbe bello lavorare per una cultura in cui i carichi di lavoro famigliari e professionali vengano condivisi il più possibile tra uomo e donna, tra i più e i meno giovani; creare le condizioni affinché la reciprocità tra i generi possa orientarsi a una convergenza verso obiettivi personali e sociali condivisi, dove i ruoli sociali e le aspirazioni private possano armonicamente sussistere.
Voler e poter mettere al mondo dei figli va ben oltre il saldare il proprio debito con la natura. È lasciare al mondo un carico di speranza che nessun presente porta con sé.