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Stato e imprese: la sostenibilità entra nei bilanci

Con il 2017 le grandi imprese avranno l’obbligo di fornire anche informazioni non finanziarie, mentre il Benessere equo e sostenibile entra nella finanza pubblica. La rendicontazione della sostenibilità è dunque un passo avanti da custodire e da promuovere.
Fascicolo: giugno-luglio 2017
Due novità normative del 2017 segnano un avvicinamento tra il mondo della finanza e dei bilanci, sia pubblici sia delle grandi imprese private for profit, e quello della preoccupazione per la sostenibilità ambientale e sociale. Imprese e gruppi di grandi dimensioni dovranno infatti comunicare anche informazioni di carattere non finanziario, legate agli impatti sociali e ambientali della propria azione, oltre alla gestione del personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione, mentre il DEF (Documento di economia e finanza) – nel quale ogni anno il Governo italiano traccia il quadro della situazione della finanza pubblica e dichiara gli obiettivi di politica economica che intende perseguire – ha preso in considerazione per la prima volta degli indicatori di Benessere equo e sostenibile, legando la valutazione di politiche economiche e finanziarie anche a fattori di sostenibilità sociale e ambientale.

Si tratta di novità che, per la loro tecnicità, difficilmente finiscono in prima pagina, anche se la normativa riguardante il mondo delle imprese ha ricevuto una certa attenzione da parte della stampa specializzata. Vale però la pena soffermarsi a riflettere su di esse, che peraltro si inseriscono in linee consolidate: quella della responsabilità sociale d’impresa e quella della ricerca di indicatori di sviluppo alternativi o complementari al PIL (Prodotto interno lordo).

Queste novità normative testimoniano la penetrazione dei valori alla base di queste linee di ricerca e di impegno, indicando che è in atto un cambiamento culturale. Al momento registriamo i segnali, senza garanzie che si tratti di un effettivo progresso. Per questo serve un deciso impegno da parte di tutti e, come vedremo, in modo particolare del Terzo settore e della società civile, istituzioni ecclesiali e comunità religiose comprese. Prima di arrivare a esprimere qualche elemento di valutazione prospettica è indispensabile fare la fatica di mettere a fuoco le novità, visto che in ambito sia pubblico sia privato ci troveremo presto di fronte a bilanci al cui interno compaiono grandezze espresse in unità di misura diverse dai milioni di euro.


1. Il mondo dell’impresa privata

Per quanto riguarda il mondo dell’impresa privata, in particolare di grosse dimensioni, ci troviamo di fronte a una iniziativa che trae origine dall’Unione Europea e incontra una domanda crescente e spesso insoddisfatta di alcune componenti del settore della finanza e della gestione degli investimenti.

a) La nuova normativa

Il decreto legislativo n. 254 del 30 dicembre 2016 opera il recepimento all’interno della legislazione italiana della Direttiva europea 2014/95/UE, intervenuta a modificare la normativa previgente in materia di «comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni». In base alle nuove disposizioni, a partire dal 2017, una serie piuttosto ampia di soggetti economici sarà obbligata a redigere una «dichiarazione individuale di carattere non finanziario» (D.Lgs. n. 254/2016, art. 3), contenente informazioni riguardanti l’impatto ambientale e sociale della gestione dell’impresa e gli strumenti adottati per prevenire le discriminazioni e combattere la corruzione (attiva e passiva).

L’obbligo riguarda tutti gli «enti di interesse pubblico» (cioè le società quotate e una serie di altre imprese, anche non quotate, attive soprattutto in campo bancario, finanziario e assicurativo) oltre a tutte le imprese (anche non quotate) e gruppi con oltre 500 dipendenti e che superano almeno una delle due soglie dimensionali indicate all’art. 2 (un giro d’affari di almeno 40 milioni di euro o un totale dello stato patrimoniale superiore a 20). Anche le imprese non soggette all’obbligo potranno redigere volontariamente la dichiarazione, indicandone la conformità a quanto stabilito dal D.Lgs. n. 254/2016. Compete alla CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa) raccogliere le dichiarazioni dei soggetti obbligati, verificarne l’attendibilità e valutarne la corrispondenza al dettato normativo, essendo previste sanzioni a carico degli inadempienti.

Il decreto elenca le informazioni minime che la dichiarazione deve contenere. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, si tratta di temi come: «l’utilizzo di risorse energetiche, distinguendo fra quelle prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili, e l’impiego di risorse idriche; le emissioni di gas ad effetto serra e le emissioni inquinanti in atmosfera; l’impatto, ove possibile sulla base di ipotesi o scenari realistici anche a medio termine, sull’ambiente nonché sulla salute e la sicurezza» (art. 3, c. 2). In ambito sociale l’attenzione si focalizza sulla gestione del personale, in particolare sui temi della parità di genere, del dialogo con le parti sociali, del rispetto dei diritti umani e del contrasto a ogni forma di discriminazione. Infine le imprese sono tenute a informare in che modo si impegnano nella «lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva, con indicazione degli strumenti a tal fine adottati» (ivi).

È altresì obbligatorio indicare la metodologia e gli standard di rendicontazione adottati, pur non definendone la norma un elenco, e viene riconosciuta la possibilità di optare per una metodologia di rendicontazione autonoma, a condizione di descriverla dettagliatamente e di motivare le ragioni della sua adozione.

b) ESG: investitori attenti alla sostenibilità

I tre ambiti tematici della dichiarazione ricalcano la tripartizione dei fattori di sostenibilità degli investimenti, che nel mondo finanziario vengono sempre più frequentemente espressi con la sigla ESG. La “E” (dall’inglese environmental) indica l’impegno ambientale (energie rinnovabili, efficienza energetica, riciclo e lotta agli sprechi, in primis). La “S” indica l’impegno in ambito sociale, in particolare il modo in cui le imprese trattano dipendenti, fornitori, clienti e gli abitanti del territorio in cui operano (in termini tecnici, i diversi stakeholder). La “G” rimanda alla governance, e quindi al funzionamento dell’impresa ad esempio per quanto riguarda l’esercizio del potere, la trasparenza e il rispetto della legalità.

La definizione di investimento sostenibile, comunque, non è univoca. Un punto di riferimento è rappresentato dai sei principi noti come PRI (Principles for responsible investment, cfr <www.unpri.org>), promossi dalle Nazioni Unite nel 2006 per coinvolgere anche il mondo delle imprese nella promozione dello sviluppo sostenibile e sottoscritti su base volontaria da circa 1.500 imprese del settore finanziario, che gestiscono investimenti per un valore attorno a 60mila miliardi di dollari (dati 2016). Chi aderisce ai PRI si impegna a incorporare le tematiche ESG nell’analisi e nei processi di investimento, nelle proprie politiche e pratiche aziendali, a ricercare trasparenza su questi fattori nelle controparti, a promuovere la responsabilità sociale nell’industria, a cooperare per raggiungere questi scopi e a documentare le attività e i progressi realizzati.

Nel corso dell’ultimo anno, il London Stock Exchange Group, il gestore della Borsa di Londra e anche di quella di Milano, in vista dell’entrata in vigore della Direttiva 2014/95/UE (recepita dagli altri Stati membri come dall’Italia) ha emanato le proprie linee guida in materia di investimento sostenibile e ha promosso occasioni di dialogo e confronto fra società quotate e investitori istituzionali proprio sul tema della rendicontazione di sostenibilità.

In realtà le novità normative vanno incontro a precise domande degli investitori, che spesso segnalano la difficoltà a ottenere dalle imprese informazioni adeguate su aspetti apparentemente lontani dal rendimento, gli ESG appunto, la cui corretta gestione è invece indispensabile per ridurre i rischi. Basta pensare a che cosa comporta per una impresa rimanere coinvolta in uno scandalo legato alla corruzione, o dover far fronte a una class action da parte, ad esempio, delle vittime di un disastro ambientale o dei danni dell’inquinamento. Si tratta di rischi il cui manifestarsi può azzerare il valore dell’investimento e a cui non possono non essere sensibili gli investitori prudenti, che operano non nell’ottica speculativa della massimizzazione del profitto di breve o brevissimo termine, ma in quella della protezione del valore del capitale su un arco temporale di medio-lungo periodo.

In qualche modo, il consolidarsi della riflessione attorno ai fattori ESG fa emergere anche l’esistenza di una finanza professionale “altra” rispetto a quella puramente speculativa che negli anni più recenti ha dominato l’immaginario collettivo. Si tratta di un processo ancora in corso, ma si moltiplicano le voci che sottolineano come l’attenzione alla sostenibilità non sia più patrimonio di una nicchia di investitori collocati tra filantropia e ambientalismo. Si diffonde la convinzione che un investimento sostenibile sia anche un investimento più sicuro, mentre non ci sono ancora evidenze definitive in termini di rendimento, in particolare di lungo periodo.

Non mancano ovviamente perplessità, problemi e interrogativi, che riguardano in particolare la questione della definizione dei parametri a cui fare riferimento. La mancanza di una solida standardizzazione universalmente accettata aumenta la difficoltà di scoprire comportamenti opportunistici, ad esempio nella selezione degli indicatori da includere nella rendicontazione. Ugualmente, visto che si tratta di una tematica sostanzialmente recente, non è ampia la disponibilità di professionisti indipendenti preparati e competenti, anche dal punto di vista etico, ad accompagnare i processi di rendicontazione di sostenibilità.


2. Il Benessere equo e sostenibile entra nella finanza pubblica

Per quanto riguarda la finanza pubblica, la Legge di bilancio n. 163/2016 richiede che al DEF faccia seguito un allegato in cui sono riportati l’andamento degli indicatori di Benessere equo e sostenibile (BES) selezionati e definiti da un apposito comitato costituito presso l’ISTAT e le previsioni sulla loro evoluzione sulla base dei provvedimenti di politica economica che il Governo intende adottare (che sono il contenuto principale del DEF).

Il DEF, introdotto nel 2011, è composto da tre sezioni: la prima, «Programma di stabilità dell’Italia», presenta gli obiettivi di politica economica e il quadro delle previsioni economiche e di finanza pubblica almeno per il triennio successivo; la seconda presenta invece in maniera dettagliata le «Analisi e tendenze della finanza pubblica»; la terza, «Programma nazionale di riforma», esplicita le priorità del Paese e le principali riforme da attuare, i tempi previsti per la loro realizzazione e la compatibilità con gli obiettivi programmatici indicati nella prima sezione. Non si tratta di una legge, anche se vincola politicamente le decisioni del Governo e viene sottoposto alla valutazione della Commissione europea.

Il DEF 2017, per la cui analisi rimandiamo all’articolo di Maria Flavia Ambrosanio e Paolo Balduzzi alle pp. 465-475 di questo numero, è dunque il primo a contenere l’allegato previsto dalla L. n. 163/2016. Vi si spiega così il senso della novità: «L’inclusione degli indicatori di benessere equo e sostenibile nel ciclo di programmazione economico-finanziaria apre la strada a una visione più ampia e articolata del rapporto tra le politiche pubbliche e la qualità della vita dei cittadini. Da questo deriva la necessità di valutare l’impatto delle decisioni pubbliche sulle dimensioni monetarie e non monetarie del benessere attraverso indicatori appositamente individuati».

Proprio come nel caso degli ESG per la finanza privata, anche per quella pubblica non si ritiene più sufficiente la valutazione da un’unica prospettiva – quella economico-contabile del rapporto debito/PIL –, ma appare una volontà di integrare le dimensioni non finanziarie nella rendicontazione e nella programmazione della traiettoria di sviluppo del Paese, in una prospettiva multidimensionale.

Tra i Paesi dell’UE e del G7 l’Italia è il primo ad assumere anche a livello dei documenti ufficiali di finanza pubblica una riflessione, ormai pluridecennale, sulla necessità di andare oltre il PIL come riferimento unico per la politica economica. Il “padre nobile” di questo filone è Robert Kennedy, che il 18 marzo 1968 in un famoso discorso all’Università del Kansas affermò: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL)». Sottolineava poi come il PIL «cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, [... ma] non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago […] né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi».

Queste critiche alla dittatura del PIL sono state spesso ripetute, mentre procedeva l’elaborazione di indicatori alternativi o complementari. Il più noto e consolidato è certamente l’ISU (Indice di sviluppo umano), messo a punto e lanciato nel 1993 dall’UNDP (United Nations Development Programme – Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) per valutare la qualità della vita nei Paesi membri. Attraverso alcune formule viene determinato per ciascun Paese un valore sintetico, che combina la considerazione del tenore di vita (PIL pro capite), della salute (speranza di vita) e dell’istruzione (scolarità). L’annuale Rapporto sullo sviluppo umano affianca all’ISU l’esame di altri indicatori, relativi alla partecipazione politica, alla parità di genere, alla disuguaglianza economica e alla qualità dell’ambiente. Basata sul lavoro dell’economista indiano (poi Premio Nobel) Amartya Sen, l’elaborazione dell’ISU intendeva rimettere al centro dell’attenzione il fatto che il PIL e la sua crescita non costituiscono il fine delle politiche economiche, ma uno dei mezzi necessari perché ciascun essere umano possa vivere secondo i propri valori e le proprie disposizioni.

Non mancano altre proposte e altri approcci, come già alcuni anni fa mostrava uno sguardo sintetico sul cammino fatto per «Misurare il benessere» (Panebianco F., in Aggiornamenti Sociali, 9-10 [2012] 671-682). Questi tentativi non sono certo privi di difetti e sono passibili di critiche dal punto di vista metodologico. Il loro pregio fondamentale è però quello di far emergere che l’operazione di misurazione non è neutrale rispetto ai fini. Questo riguarda anche la misurazione degli aspetti qualitativi, che è insidiosa perché «in molti casi si tratta di una valutazione soggettiva, che dipende dalle preferenze e dal sistema di valori dei singoli» (ivi).

Si colloca in questo filone di ricerca di misure del benessere anche il BES, su cui è caduta la scelta del Governo italiano. Esso nasce nel 2011 da una iniziativa congiunta di CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) e ISTAT, insieme ai rappresentanti delle parti sociali e della società civile (cfr <www.misuredelbenessere.it>, aggiornato fino al 2015). Il benessere e la sostenibilità sociale e ambientale sono misurati attraverso l’analisi di circa 130 indici ripartiti in 12 dimensioni: salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi. A partire dal 2013 l’ISTAT pubblica con cadenza annuale il Rapporto BES, consultabile sul sito dell’Istituto. Il BES, come riconosce anche il DEF, è un cantiere aperto, oggetto di un continuo lavoro di affinamento per renderlo sempre più completo e rappresentativo. Al momento la ricerca investe la revisione degli indicatori in materia di equità.


3. Verso un approccio sempre più integrale

Le novità normative che abbiamo esaminato non bastano a sventare possibili ambiguità e rischi. Esistono bilanci falsi o un po’ imbellettati, così come una finanza creativa in ambito pubblico quanto privato; lo stesso potrà accadere con le dichiarazioni individuali o con la rendicontazione del BES. Non è bene tuttavia assumere da subito un atteggiamento di sconsolato cinismo: le novità normative rappresentano quanto meno una opportunità e uno stimolo per assumere uno sguardo più integrale sui fenomeni economici e finanziari abitualmente rappresentati nei bilanci. Quanto più le nuove disposizioni saranno prese sul serio, tanto più saremo aiutati a riconoscere i legami tra le grandezze economiche e finanziarie e i fattori di sostenibilità ambientale, sociale e di buona governance. La presa di consapevolezza è un primo passaggio necessario per modificare i comportamenti e i criteri di scelta a livello individuale, di impresa e di collettività. Peraltro l’esistenza di un pubblico di investitori attenti ai fattori ESG ne dimostra il grande potenziale.

Il tema non riguarda però soltanto i professionisti del mondo della finanza, ma interpella tutti, in modo particolare il Terzo settore e la società civile, comprese Chiese, istituzioni ecclesiali e comunità religiose. A prima vista questi soggetti paiono tagliati fuori dalle nuove disposizioni, rivolte al settore privato for profit e allo Stato, ma non è difficile scorgere nella nuova situazione una opportunità di aprire spazi di dialogo tra mondi normalmente considerati distanti.

Non mancano esempi stimolanti, quali le campagne di divest/reinvest che spingono gli investitori a ritirare i propri fondi dalle imprese del settore petrolifero per ricollocarli in quello delle energie rinnovabili e della green economy. Nate per lo più nel mondo della militanza sociale e ambientale, tali campagne hanno via via incrociato ordini religiosi e istituzioni ecclesiali e stanno intavolando un dialogo con imprese e professionisti del mondo della finanza. Solo in questo ambito in Italia nel primo semestre del 2017 si sono moltiplicati gli eventi, alcuni anche di scala globale: dalla Conferenza internazionale «Laudato si’ e investimenti cattolici: energia pulita per la nostra casa comune» (Roma, 27 gennaio), a quella intitolata «I rischi climatici e le strategie di investimento socialmente responsabile» (Milano, Università Bicocca, 3 maggio), al Seminario nazionale «Laudato si’ per la transizione energetica e una finanza sostenibile» (Bologna, 8 giugno). Il 10 maggio anche i gesuiti italiani, insieme alla Comunità monastica di Siloe, all’arcidiocesi di Pescara e alla Rete interdiocesana Nuovi stili di vita, hanno annunciato il proprio impegno per il disinvestimento.

Perché questo dialogo possa essere proficuo, Chiese, società civile e Terzo settore dovranno accettare di misurarsi con la rendicontazione della propria sostenibilità, trovando le modalità più opportune per farlo in modo almeno altrettanto rigoroso quanto quello richiesto dalle normative a cui pure non sono soggetti. Si tratta in primo luogo di un passaggio di trasparenza per rimanere al passo con le esigenze del nostro tempo, ma soprattutto di una occasione di acquisire una pratica e una competenza che abiliti a entrare nel merito delle problematiche specifiche della rendicontazione.

Uno dei principali problemi in materia di rendicontazione della sostenibilità è infatti la definizione dei parametri e delle soglie di accettabilità. Si tratta di valutazioni che dipendono anche dalla prospettiva di chi le fa e che possono cambiare a seconda dei punti di vista. Tanto per fare un esempio, la valutazione di sostenibilità di un certo livello di emissioni e quindi di riscaldamento globale è diversa se chi la compie abita in una zona interna o in un atollo del Pacifico minacciato dall’innalzamento del livello dei mari. Così, per quanto riguarda la sostenibilità sociale, una valutazione onesta richiede di integrare e talvolta di privilegiare il punto di vista dei più poveri e delle vittime di discriminazione e di ingiustizia. Per ricorrere anche qui a un esempio, spetta soprattutto alle donne giudicare se si può ritenere accettabile un certo risultato in termini di parità di genere.

Nelle attuali dinamiche sociali, i soggetti ecclesiali, della società civile e del Terzo settore sono tra quelli più in grado di raccogliere e trasmettere il punto di vista degli outsider, delle minoranze, delle vittime e dei più poveri. Hanno a questo riguardo una grande responsabilità per far sì che la progressiva integrazione delle dimensioni della rendicontazione (economico-finanziaria, ambientale, sociale, ecc.), oggetto delle leggi da poco entrate in vigore, sia sostenuta da un percorso di integrazione di una pluralità di punti di vista nell’elaborazione dei parametri e degli indicatori di riferimento.


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