La storia è attraversata da un insopprimibile anelito alla giustizia, che va di pari passo con il continuo riproporsi del predominio della violenza nelle relazioni tra i singoli e tra i popoli. Lo sa bene la Bibbia, che nelle prime pagine, dopo aver illustrato il progetto originario di Dio come volontà di benedizione (cioè di comunione e di vita), descrive la situazione di maledizione (cioè di divisione e di morte) in cui storicamente versa l’umanità. Al termine dei primi undici capitoli di
Genesi, infatti, il panorama offerto presenta il volto di un’umanità divisa e dispersa. I popoli del mondo biblico sono elencati nel segno del conflitto e dell’inimicizia (
Genesi 10, ad esempio), così come spesso peraltro accade nella storia umana. Ecco allora il riproporsi dell’interrogativo: di fronte al dilagare della violenza, quale cammino intraprendere per aprire un varco a una convivenza giusta e fraterna? Sembra possibile elaborare una risposta a partire dalla figura di Abramo, la cui vicenda emblematica comincia proprio in
Genesi 12: una “ripartenza” del cammino dell’umanità che viene proposto da Dio come un invito a uno spostamento, a un viaggio, nel quale Israele vede riflessa la propria immagine, scorge ciò che è chiamato a essere e a testimoniare nel mondo.
Per cogliere il cuore del percorso lungo il quale è stato condotto Abramo, ci si deve rivolgere infatti proprio ai primi versetti di questa “ripartenza”, cioè al testo programmatico di Genesi 12, 1-3.
Genesi 12, 1-3
1Il Signore disse ad Abram:
“Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò.
2
Farò di te un grande popolo
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e diventerai una benedizione.
3 Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra”.
Qui, in pochi tratti essenziali, si trova condensato l’appello decisivo che egli ha avvertito nella propria vita. Tale appello è stato sovente visto come il prototipo della chiamata a lasciare tutto (casa, famiglia, beni). Si potrebbe quindi pensare che, per ripartire nel percorso che conduce alla convivenza fraterna dei popoli, occorra abbandonare le proprie “ricchezze”, spogliarsi di ciò che si ha per andare incontro al nuovo itinerario con una diversa libertà. In realtà, si deve notare che, almeno in prima istanza, Abramo non si distacca affatto dai beni. Anzi, è vero il contrario. In 12, 5 è detto infatti che Abram prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Cànaan, e ci verrà più avanti detto che Abram era molto ricco in bestiame, argento e oro (13, 2; cfr anche 13, 6).
È da scartare anche l’idea della necessità di abbandonare la propria relazione identitaria etnica, la propria appartenenza alla “famiglia”, quasi a dire che se si vuole andare incontro ad altri popoli occorre rinunciare ad essere se stessi. La separazione dalla famiglia, troppo facilmente presupposta, non appartiene alla realtà del nostro testo. Abramo infatti parte con tutti i suoi familiari, prendendo con sé anche Lot, il figlio del fratello morto, di cui è diventato tutore.
Diventare emigrante
Per giungere a una comprensione più adeguata del testo, si deve osservare che la storia di Abramo si inserisce nel contesto delle grandi migrazioni di popoli. È quanto si ricava dall’annotazione di Genesi 11, 31 secondo cui Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè del suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei [Mesopotamia meridionale] per andare nel paese di Cànaan. Arrivarono fino a Carran [Mesopotamia settentrionale] e vi si stabilirono. Lo spostamento di Abramo si trova inserito in un movimento che egli, in un primo tempo, vive in modo passivo, ma a un certo momento egli è portato a scoprire il significato profondo della migrazione nella quale si trova coinvolto: vi legge un appello che viene dall’alto ad assumere lo statuto di emigrante. Qui è racchiuso il senso vero e proprio della sua vocazione. Ciò che gli viene chiesto è di far propria la condizione di vita del nomade, rinunciando al suo diritto di residente. In tal modo, viene sollecitato ad abbandonare garanzie e diritti certi, che derivano dall’essere insediato in un territorio preciso. In termini odierni si direbbe che ad Abramo è chiesto di trasferirsi in un Paese di cui non ha la cittadinanza e, almeno in prima battuta, neanche il permesso di soggiorno. Con tutte le conseguenze del caso, assai simili a quelle che subiscono coloro che vivono oggi in questa situazione. Quando arrivano in Egitto, Sara è costretta a concedersi al faraone (Genesi 12, 10-16) perché la famiglia possa avere salva la vita e ottenere il permesso di soggiorno, come capita anche oggi a tante migranti quando si trovano ad avere a che fare con le “autorità” e i potenti che incontrano lungo il percorso di migrazione.
A questo proposito, riveste notevole significato il fatto che Abramo resterà un emigrante per tutta la vita, come risulta dal prosieguo della storia. Abramo, giunto in Canaan dopo aver lasciato Carran, attraversa tutto il paese, da nord (Sichem e Betel) a sud (Negheb, 12, 4-9); quindi, a causa di una carestia, scende in Egitto (12, 10). Dall’Egitto torna a Betel (13, 3-4), per poi spostarsi a Ebron (13, 18), località situata 37 chilometri a sud di Gerusalemme, dove seppellirà sua moglie Sara (23, 2) e dove poi sarà lui stesso sepolto (25, 9). Due sono gli aspetti salienti che emergono dal racconto degli spostamenti del patriarca. In primo luogo, Abramo attraversa tutte le strade lungo le quali si muoveranno in futuro i suoi discendenti, il popolo di Israele: non solo nella terra di Canaan, ma anche l’Egitto. Di conseguenza egli costituisce la figura chiave nella quale tutti gli israeliti possono e debbono identificarsi (vale la pena sottolineare anche che Abramo proviene dall’area che diventerà poi Babilonia e si sposta nell’area che sarà l’Assiria, comprendendo nel suo migrare le due regioni che vedranno la permanenza degli israeliti deportati).
In secondo luogo, spicca la presentazione di Abramo come pastore nomade che – per dirla con le parole della lettera agli Ebrei – ha vissuto sempre sotto le tende, in ricerca della città il cui architetto è Dio (Ebrei 11, 8-10). Infatti, il testo della Genesi ne definisce ripetutamente la condizione proprio con l’appellativo di «emigrante»: Abramo scese in Egitto per esservi come emigrante (12, 10); fu a Gerar come emigrante (20,1) e dimorò come emigrante nella terra dei Filistei (21, 34); qui si è tradotto con un unico termine la medesima radice ebraica gwr, per la quale le bibbie italiane tendono a utilizzare diversi termini, come forestiero, straniero, ecc.
Ecco il punto: assumere consapevolmente la condizione di «emigrante» – spogliarsi, cioè, di sicurezze gelosamente custodite, l’essere povero di diritti da difendere contro gli altri – costituisce la condizione fondamentale per realizzare il progetto di Dio, per ricostruire la fraternità tra le persone e tra i popoli, edificando una città alternativa rispetto a Babele, fondata sulla mitezza e non sulla violenza.
Superare la logica del possesso
In base alle considerazioni sin qui svolte, risulta chiaramente che Abramo è chiamato a dare un orientamento nuovo alla sua vita. Ciò comporta, innanzitutto, uno stacco, una presa di distanza dal proprio mondo (Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria), segnato dalla logica del possesso e del dominio, che, come emerge fin dalle prime pagine della Bibbia, perverte le relazioni di cui è intessuta l’esistenza umana, aprendo la strada alla maledizione. Ma attenzione: Abramo non lascia tanto per lasciare! Parte in nome della terra della comunione (verso il paese che io ti indicherò), oggetto del desiderio di Dio, che diventa oggetto della sua ricerca. Per questo è sollecitato a far propria una nuova logica, quella della rinuncia al proprio diritto in nome della fraternità. È chiamato a rischiare un tipo di vita alternativo, caratterizzato non più dalla cupidigia, ma dallo spossessamento: non per masochismo, ma per amore.
Per Abramo si tratta di vivere un esodo liberante, di sperimentare una sorta di nuova nascita, come lascia intendere il verbo uscire, impiegato in 12, 4 per segnalare l’inizio della sua migrazione (Abramo aveva settantacinque anni quando uscì da Carran). Uscire, infatti, è in ebraico il verbo della nascita, usato anche in riferimento all’esodo di Israele dall’Egitto. Abramo, dunque, deve passare attraverso una trasformazione radicale, che, per usare una terminologia che troviamo secoli dopo nel Nuovo Testamento (cfr Efesini 4, 22-24 e Colossesi 3, 9-10), comporta la fine dell’uomo vecchio e l’affermazione di un uomo nuovo (cfr Teani M., «Entrare, uscire», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2012] 340-344). La necessità di morire per nascere a una vita conforme al progetto di Dio trova conferma nel racconto delle migrazioni di Abramo. Richiamando più sopra gli spostamenti che lo hanno visto protagonista, abbiamo accennato al fatto che Ebron risulta essere il luogo di una certa stabilità. Lì infatti il patriarca acquista un terreno in cui si trova una caverna, dove seppellirà Sara e dove lui stesso sarà sepolto. Tale acquisto non è solo la segnalazione della transazione finanziaria relativa a una proprietà fondiaria, ma sottolinea per Abramo (e per i suoi discendenti) il diritto della sua permanenza in un luogo abitato da altri. Conseguentemente risulta che, con l’atto di acquisto del terreno, la promessa della terra comincia a realizzarsi. Ma va subito aggiunto che si deve morire per risiedere nella terra (della fraternità). Finché è vivo, Abramo resta un emigrante; solo morendo diventa residente.
Abramo dà il proprio assenso all’appello di Dio, che egli avverte risuonare imperioso dentro le circostanze concrete in cui si trova a vivere. Prende così le distanze da tutto un mondo vecchio, impregnato della logica mortificante della cupidigia. È in grado di farlo perché si fida della Parola di Dio, che promette un futuro di benedizione a lui (ti benedirò) e, attraverso di lui, a tutti i popoli (in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra). La benedizione di Dio raggiunge chi, come Abramo, non si chiude nella difesa a oltranza di se stesso, ma accetta di “rimetterci” affinché si instauri la fraternità sulla terra. È benedetto chi è disposto a rinunciare al proprio diritto per accogliere gli altri.
Il primato della fraternità
Tutto questo trova una illustrazione particolarmente efficace nell’episodio narrato in Genesi 13, 1-12.
Genesi 13, 1-12
1Dall’Egitto Abram ritornò nel Negheb con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui. 2Abram era molto ricco in bestiame, argento e oro. 3Poi di accampamento in accampamento egli dal Negheb si portò fino a Betel, fino al luogo dove era stata già prima la sua tenda, tra Betel e Ai, 4al luogo dell’altare, che aveva là costruito prima: lì Abram invocò il nome del Signore. 5Ma anche Lot, che andava con Abram, aveva greggi e armenti e tende. 6Il territorio non consentiva che abitassero insieme, perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme. 7Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot, mentre i Cananei e i Perizziti abitavano allora nel paese. 8Abram disse a Lot: “Non vi sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. 9Non sta forse davanti a te tutto il paese? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io antra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra”.
10Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte - prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra -; era come il giardino del Signore, come il paese d’Egitto, fino ai pressi di Zoar. 11Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro: 12Abram si stabilì nel paese di Cànaan e Lot si stabilì nelle città della valle e piantò le tende vicino a Sòdoma.
Abramo e Lot, di ritorno dall’Egitto, si portano nei pressi di Betel. Il testo insiste volutamente sulla ricchezza di entrambi (13, 2.5), dal momento che possedere troppi beni è causa di divisione. Produce come effetto il fatto che non si possa abitare insieme. Infatti, scoppia una disputa tra i pastori di Abramo e quelli di Lot, verosimilmente per lo sfruttamento dei pascoli. L’uscita dalla lite è iniziativa di Abramo. Egli avverte come contraria alla fraternità la situazione di conflitto creatasi (13, 8: Non vi sia discordia … perché noi siamo fratelli) e decide di non avvalersi del diritto di scegliere per primo il territorio in cui fermarsi, che gli deriva dall’essere più anziano di Lot e suo tutore. Lascia scegliere al nipote il territorio che preferisce (13, 9). Abramo rinuncia al diritto di precedenza in nome della fraternità.
Nella figura e nella storia del pastore Abramo, Israele legge i tratti che devono caratterizzare la sua identità profonda. Popolo di pastori nomadi (cfr Genesi 46, 31-34), in cammino verso una terra in cui abitare, è chiamato a riconoscere e assumere questa condizione itinerante come dimensione essenziale del suo essere. Una dimensione che deve essere mantenuta sempre. Anche dopo la sedentarizzazione, infatti, Israele deve conservare l’animo del nomade, proprio di chi non si sente arrivato, non è arroccato a difesa delle proprie certezze né è attaccato alle proprie sicurezze. Per questo, deve fare memoria della propria origine, deve ricordare che la terra che possiede gli è stata donata. È Dio stesso a rimarcarlo: La terra è mia e voi siete presso di me come emigranti stranieri e come residenti temporanei (Levitico 25, 23). I due termini introdotti in questo versetto per qualificare lo statuto di Israele nella terra della promessa sono gli stessi utilizzati da Abramo per definire la sua condizione tra gli abitanti di Canaan, Io sono tra voi come emigrante straniero e come residente temporaneo (Genesi 23, 4), e ricorrono identici nel passo di 1 Cronache 29, 15, allorché Davide parla dell’identità sua e di tutti gli israeliti (Noi siamo emigranti stranieri davanti a te e residenti temporanei, come tutti i nostri padri) e vengono ripresi dal salmista: Io sono un emigrante straniero e un residente temporaneo, come tutti i miei padri (Salmo 39, 13) (ancora una volta, in questi testi, abbiamo tradotto con un unico termine italiano la comune radice ebraica, allontanandoci dalla traduzione CEI normalmente utilizzata nell’articolo). Quanto detto mostra da una parte come Israele sia chiamato a essere un popolo in stato perenne di esodo, e, dall’altra, come assumere consapevolmente tale condizione nomadica sia indispensabile per preparare una terra dove dimorano la giustizia e la pace. Ma non è certamente un orizzonte pertinente solo all’Israele biblico. Se le persone, i gruppi, le nazioni si chiudono nella difesa a oltranza dei propri diritti, reali o presunti, non sarà possibile superare le divisioni e le sperequazioni che inquinano i rapporti. La possibilità di collocarsi come popoli in cammino, in qualche modo “migranti” nelle relazioni con gli altri, obbliga a riflettere sulla necessità di un necessario “spostamento” dalle proprie posizioni per trovare continuamente nuovi assetti di dialogo e di convivenza fraterna.