Speranza

Fascicolo: giugno-luglio 2020

«La parola di Dio ha squarciato il silenzio dell’universo, ha animato il deserto dell’esistenza, ha dato un senso e una meta ai nostri passi incerti. Essa, che al culmine della sua rivelazione si è presentata con il volto amabile di Gesù di Nazareth, non è dunque un dono superfluo, ma il rimedio offerto dalla misericordia del Padre alla tristezza e alla paura che non potrebbero non provare e fiaccare l’uomo lasciato a se stesso nella vicissitudine enigmatica e penosa della vita».

Queste parole, tratte dalla Lettera pastorale scritta quasi quarant’anni fa dal card. Carlo Maria Martini (In principio la Parola, Centro Ambrosiano, Milano 1981, 53), continuano a interpellarci. Soprattutto oggi, in cui non solo siamo coinvolti nella sofferenza di persone a noi vicine, ma siamo colpiti da una tragedia che investe l’intera società. Martini ci ricorda che ci è dato di attraversare questi momenti bui conservando la speranza in un futuro di benedizione, grazie a quel poco o tanto di luce che la Scrittura ha il potere di accendere nelle nostre giornate.

«E fu sera e fu mattina» (Genesi 1,3-5)

È ampiamente riconosciuto che a partire dall’esilio, in un tempo cioè profondamente segnato dalla morte, il tema della creazione giunge a occupare in Israele un posto centrale. È in questo tempo che prende forma il racconto di Genesi 1, indirizzato a una comunità sfiduciata e in preda all’angoscia del domani (cfr Bovati P., «Significare la vita. Riflessioni sul capitolo primo della Genesi», in Jori A. et al., La responsabilità ecologica, Studium, Roma 1990, 111-136). Il redattore descrive la vittoria di Dio sul caos primordiale, inquadrando il racconto nell’arco di una settimana. In tal modo indica come tale azione vittoriosa si prolunghi nel fluire dei giorni, fino alla sua piena realizzazione. Vediamo come.

Nello schema settenario rivestono un rilievo particolare il primo e il settimo giorno, dal momento che occupano una posizione privilegiata (inizio e fine della serie). Quale messaggio di senso è racchiuso nella presentazione di questi due giorni? Nel primo giorno viene creata la luce (Genesi 1,3). Poiché nella cultura del tempo (ma ciò vale anche per la nostra) la luce simboleggia la vita e le tenebre la morte, ne risulta che la prima opera del Creatore consiste nel promuovere un grande dinamismo di vita. Ma va subito precisato che, secondo la pagina genesiaca, l’apparire della luce non elimina le tenebre. Inaugura invece la successione di notti e di giorni, cioè il tempo storico (cfr Genesi 1,5: E fu sera e fu mattina, espressione che ritorna nei vv. 8, 13, 19, 23, 31, scandendo l’intero racconto). È un tempo qualificato dal dono straordinario della vita; una vita tuttavia precaria, segnata dal limite creaturale. Scrive Bovati: «Si sa che in Israele si faceva cominciare il ciclo giornaliero con il vespro; si entrava nella tenebra notturna come in una morte simbolica, per rinascere alla vita con la luce del mattino. Ogni giornata della storia dell’uomo ripropone, simbolicamente, ciò che avvenne nel primo giorno della creazione; ogni giornata realizza di fatto la vittoria della vita che viene da Dio. L’apparire della luce è solo un segno della potenza amorosa di Dio; la luce ogni sera lascia il posto all’ombra della notte. Poiché siamo nella storia, e non nella escatologia, il trionfo della vita, nel creato, non è definitivo. Ma è un segno costante e universale: quando la luce rischiara il mattino, ogni uomo può contemplare il segno della potenza creatrice di Dio che, giorno dopo giorno, è all’opera nella storia per vincere le tenebre e la morte» (Bovati P., «Significare la vita», cit., 120).

Quanto emerge dal primo giorno della creazione va articolato con il messaggio di senso che traspare dal settimo giorno (il sabato). Quest’ultimo costituisce il compimento dell’opera creatrice (cfr Mazzinghi L., «“In principio Dio creò il cielo e la terra”: il racconto della creazione come profezia», in Parola, Spirito e Vita, 41 [2000] 17-18). È il giorno verso il quale tutta la realtà tende come suo fine. Capire la creazione significa capire che l’essere umano è chiamato a vivere non una successione ripetitiva, ma un cammino che tende verso la pienezza, verso l’ultimo giorno in cui non ci sarà più tenebra (cfr Apocalisse 21,25 e 22,5). Dio ha messo in moto la storia, caratterizzata dall’alternanza di notti e di giorni. Essa, però, è orientata verso il compimento, come i sei giorni tendono al sabato, il giorno ultimo non più seguito dalla sera. Nella sua condizione storica l’uomo sperimenta come la vita non abbia ancora pienamente trionfato sulla morte. Tuttavia, in forza della fede nel Creatore, è sostenuto dalla coscienza di essere in cammino verso una giornata in cui il sole non tramonterà più.

 

«Non preoccupatevi del domani» (Matteo 6,34)

Gesù, come illustra con particolare efficacia il vangelo di Matteo, porta a compimento la rivelazione, attestata nelle Scritture di Israele, sul senso di quella che il cardinal Martini ha chiamato la «vicissitudine enigmatica e penosa della vita». Profondamente radicato nella fede del suo popolo, egli fa conoscere in maniera compiuta il volto di Dio e la sua iniziativa di amore, che raggiunge tutti senza distinzione. L’insegnamento autorevole di cui è portatore si radica nel rapporto unico che lo unisce al Padre, rapporto che egli vive in un affidamento senza incrinature e, nello stesso tempo, in piena responsabilità, senza deleghe infantili. Gesù, da una parte, non ha la pretesa di catturare a proprio vantaggio l’onnipotenza del Padre, così da sfuggire ai limiti della condizione storica. Non cerca da Lui una protezione facile, che lo sottragga alle difficoltà della vita e lo esima dal compiere scelte responsabili. Sa che il Padre ci promuove nella nostra dignità di persone adulte, capaci di decisioni libere e consapevoli, senza sostituirsi a noi. Dall’altra parte, in ogni circostanza della sua vita fino alla prova suprema della passione, egli mantiene un atteggiamento di totale fiducia nel Padre, di pieno affidamento al suo progetto. È significativo che l’evangelista Marco ricordi come egli si sia rivolto al Padre con il titolo confidenziale di Abbà proprio nell’Orto degli Ulivi, nella notte in cui provò, con intensità emotiva fortissima, paura e turbamento di fronte alla morte imminente (cfr Marco 14,33-36).

Sulla base di questa sua personalissima esperienza, Gesù, nel modo di rapportarsi con le persone che incontra, nelle sue prese di posizione quotidiane, mostra che il vero volto di Dio è quello di un Padre che dà solo cose buone (cfr Matteo 7,11) e si prende cura di tutti (cfr Matteo 6,8). I discepoli sono sollecitati a imparare a fidarsi e ad affidarsi a una tale sollecita presenza, relativizzando l’attaccamento viscerale alla propria vita. Alla preoccupazione ansiosa per la propria sopravvivenza, Gesù insegna a sostituire la ricerca del Regno di Dio (cfr il testo di Matteo 6,25-34, nel riquadro), cioè la ricerca della giustizia e della fraternità, assumendo uno sguardo nuovo di fronte alla vita e a ciò che conta in essa.

Matteo 6,25-34

25
 Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28 E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31 Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32 Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33 Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

L’affannarsi per il cibo e per il vestito e, ancor più radicalmente, per il domani, equivale «a non credere sul serio che Dio sia il creatore, o a pensare che egli possa abbandonare le sue creature. In positivo però ciò non vuol dire che l’atteggiamento di fede sia la passività, il fatalismo; nel contesto Gesù esorta a un impegno attivo nella ricerca del Regno (6,33). L’invito a rivolgere lo sguardo agli uccelli del cielo e ai fiori del campo non vuole essere un invito a prendere come modelli dell’azione umana queste piccole creature che sopravvivono senza dover lavorare; ma un invito a considerare l’azione di Dio nei loro confronti, per ricavarne motivi di fiducia... Le sue parole dunque non sono quelle del provvidenzialismo a buon mercato di chi non ha il coraggio di guardare in faccia la realtà della sofferenza e della morte... Anche per i discepoli l’invito a non stare in ansia non significa che debbano sentirsi immunizzati dalla sofferenza e dalla morte, ma che in quel momento dovranno abbandonarsi con fiducia al Padre, e intanto vivere l’oggi con serenità, congiungendo il massimo dell’impegno con il massimo del distacco» (Fusco V., «L’incredulità del credente: un aspetto dell’ecclesiologia di Matteo», in Parola, Spirito e Vita, 17 [1988] 124-125).

Vivendo e insegnando a porsi in questo modo davanti alla vita e al suo senso, Gesù ha acceso una luce capace di illuminare i passi di ogni donna e di ogni uomo, anche e soprattutto quando la notte del dolore sembra avvolgere il cammino di tanti.

 

29 giugno 2020
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