Soccorsi. E poi?
Voci di rifugiati arrivati in Sicilia
JRS Europa e Centro Astalli – JRS Italia
Proseguono le riflessioni sociali ed ecclesiali del teologo Armando Matteo. Ecco una sferzante analisi attorno a diversi interrogativi: «Cosa sta succedendo attorno a noi? Cosa comportano una cultura e un sentimento di vita potentemente attratti nella logica del giovanilismo? Cosa produce la ripulsa sempre più esplicita della vecchiaia? Quali effetti ottiene il silenzio cui abbiamo costretto l’esperienza della morte?» (p. 37).
Viviamo in un contesto in cui «“il non essere più giovane” costituisce, per la maggioranza degli attuali cinquantenni e sessantenni, la più grave delle maledizioni, malattie, depressioni possibili» (p. 10), in una «società di adulti che amano più la giovinezza che i giovani» (p. 21). Non avendo modelli di maturità a cui tendere, i giovani restano adolescenti permanenti: «se per noi adulti crescere è la cosa peggiore che esista (orrore per i capelli bianchi, interventi estetici, pillole, percezione falsa dell’età, ecc.) perché dovrebbe risultare una cosa bella per i giovani?» (p. 38).
Inseguendo il mito della giovinezza, gli adulti sono tristi. Non è senza prezzo, infatti, vivere continuamente “contromano”: «la lotta contro la vecchiaia, contro la possibilità della malattia, contro la morte, è una lotta improponibile, che logora ed esaurisce ogni energia. Consuma dentro e l’anima perde ogni profondità» (p. 43). Senza adulti non è possibile educare e generare nemmeno alla fede, alla bellezza umana del Vangelo. Per questo è quanto mai urgente «rievangelizzare l’adultità [...] restituire attrattiva specifica e dignità morale all’ambizione di essere adulti» (p. 104); «sciogliere quel nodo tra fede e depressione che fin troppo contraddistingue l’espressione corrente della vita cristiana» (p. 107); riscoprire la preghiera quale luogo e tempo dove scendere a patti con la precarietà e la mancanza, la fatica e il desiderio.
L’adulto che ci manca è colui «che può finalmente immaginare la sua mancanza, affinché i giovani possano direttamente giocare la partita della loro esistenza» (p. 100).
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