Da qualche mese il termine “sobrietà” è entrato prepotentemente nel lessico politico, per indicare la cura più adatta per uscire dalle crisi economiche oppure una sorta di contrappasso per quei Paesi che hanno vissuto dissennatamente nel passato. Alcuni la evocano come uno spettro per le nostre società opulente, altri mettono in dubbio l’effettiva efficacia di un rigore fine a se stesso, mentre non manca chi da tempo la identificava come una via di uscita dalle contraddizioni del consumismo capitalista, nel tentativo di declinare il benessere come felicità personale e sociale e non come crescita del PIL (si pensi in tal senso a tutto il filone della “decrescita”, che ha tra i suoi slogan la “sobrietà felice”, come ad esempio Bologna G., Invito alla sobrietà felice. Come vivere meglio consumando meno, EMI, Bologna 2000). Si moltiplicano su quotidiani e riviste gli interventi sul tema del ritorno alla sobrietà in una serie sempre più ampia di campi (moda, spettacolo, consumi energetici, educazione dei figli, gadget tecnologici, ecc.), quasi sempre interpretata come dura necessità di sacrificare stili di vita fino a ieri ritenuti “normali”, o al limite come tentativo di trovare il modo di difenderli riducendone i costi (il boom del low cost).
Eppure, tradizionalmente, sobrietà, temperanza e moderazione (termini che utilizziamo qui come sinonimi) sono sempre state concepite e presentate non come “punizioni” o “medicine” amare, ma come virtù e vie per la felicità. Certo, nelle epoche storiche di abbondanza di risorse e di opportunità, in cui è più facile che le persone possano permettersi di esagerare e sprecare, appaiono più forti gli inviti al discernimento nell’uso delle cose e alla moderazione nel loro consumo, identificando nello spreco e nel lusso un fattore di corruzione e decadenza. Invece, in epoche più austere, nelle quali la maggioranza delle persone ha appena il necessario per sopravvivere, la cultura e l’immaginario collettivo sembrano più sensibili alla possibilità di eccedere, tanto da far nascere figure eroiche la cui virtù stava proprio nell’esagerazione. Così è stato anche notato che quando una società si emancipa dalla miseria, sembra esserci una transizione da filosofie di stampo individualistico (che tendono a lodare il vitalismo e la sregolatezza) ad altre che mettono al centro la convivenza sociale e comunitaria (che al contrario puntano a fare del senso della misura una virtù): «Dinanzi alla tensione tra temperanza e principio eroico, è naturale che tanto meno tollerabile diventa un comportamento sregolato quanto più le istituzioni si sviluppano; così, quando il livello dei consumi è cresciuto a sufficienza, gli eccessi anche alimentari non vengono [in età ellenistica] più guardati con l’ammirazione dell’età omerica, ma sono assoggettati alla riprovazione della morale popolare» (Cantilena M., «Dalla povertà alla temperanza. Breve viaggio nel mondo greco antico», in Servitium, 162 [2005] 30).
Nella nostra situazione contemporanea stiamo assistendo forse alla modificazione di queste categorie. Sembra infatti che l’enfasi sul “consumatore” i cui bisogni vanno sollecitati e moltiplicati perché, attraverso l’acquisto sempre più vorace di beni individuali, si alimenti la macchina economica, ceda il posto alla drammatica centralità del rischio che la collettività, tutta insieme, affondi sotto il peso della crisi e dei debiti accumulati per sostenere uno stile di vita “esagerato” in precedenza. Così si chiede all’individuo di fare un passo indietro e di farsi carico delle necessità del bene comune attraverso una nuova austerity, sobrietà imposta a ciascuno per il bene di tutti. Anche se, a dire il vero, sembra una richiesta fatta pressantemente solo a chi si trova in qualche modo in difficoltà, mentre chi gode di beni e di forza economica sembra invitato a mantenere il suo stile di vita: cala il consumo di alimenti e di beni essenziali per alcune classi sociali, mentre cresce quello di beni di lusso per altre.
Se si cerca nella Sacra Scrittura qualche suggestione attinente a queste riflessioni, ci si trova in difficoltà, data la scarsità di riferimenti a queste tematiche.
La sobrietà dall’AT al NT
Il tema della temperanza è praticamente assente dai testi dell’Antico Testamento biblico, se si escludono i vari richiami a non ubriacarsi (il che peraltro ci ricorda uno dei significati di sobrietà): i testi in cui la condizione dell’ubriaco è descritta come la meno adatta per una persona saggia sono diversi (cfr solo come esempio Isaia 5, 11.22; 28, 7). Tuttavia, la possibilità di bere e mangiare molto è normalmente considerata segno di ricchezza e di benessere anche nella Bibbia e il vino, frutto della vite, è più spesso evocato per gli effetti positivi dell’allegria, letizia del cuore, abbondanza, che per quelli disastrosi di un’eventuale ubriacatura (cfr Salmi 104, 13-15; Amos 9, 14). L’unico testo che invita a una “moderazione” sembra Proverbi 17, 27: Chi è parco di parole (in greco “risparmiare”, “fare un uso moderato”) possiede la scienza e chi è di spirito calmo è un uomo prudente. Si noti che il senso della misura è collegato non al bere, ma al parlare!
Così bisogna arrivare ai testi sapienziali prodotti dal giudaismo di lingua greca di area egiziana nel V-III secolo a.C. per scorgere segni di recezione dell’invito alla temperanza e alla moderazione come virtù, tipicamente secondo i dettami della cultura ellenistica. Il maggiore benessere e il più elevato livello di inculturazione della comunità giudaica di Alessandria d’Egitto fanno sì che questa traduca i testi ebraici della Scrittura in greco e produca testi spirituali che assorbono la cultura e la filosofia ellenistica avvertita prevalentemente nella sua valenza positiva. Così, è abbastanza evidente che uno stile di vita “equilibrato” e “moderato” sia presentato sotto l’egida della sapienza e della saggezza: Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Ella infatti insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini durante la vita (Sapienza 8, 7; cfr anche 2 Maccabei 4, 37; Tobia 4, 15). In questo versetto le quattro virtù tipiche della grecità sono unite nella ricerca della giustizia, cioè del giusto modo di vivere nel mondo. Gli eccessi d’ira sono biasimati per l’uomo (Non ti abbandonare alla tua passione, perché il tuo vigore non venga abbattuto come un toro, Siracide 6, 2) e Dio stesso viene lodato per la moderazione nei suoi giudizi: Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere (Sapienza 12, 8).
La sobrietà in senso proprio è presente nel Nuovo Testamento nelle sezioni esortative di alcune lettere come caratteristica comportamentale legata all’atteso ritorno del Signore Gesù.
1 Tessalonicesi 5, 2-8
2 Fratelli, sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. […] 4 Ma voi non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. 5 Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. 6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. 7 Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. 8 Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.
La prima lettera di Paolo alla comunità di Tessalonica (che è di fatto il primo scritto del Nuovo Testamento, databile a circa vent’anni dalla morte e risurrezione di Gesù) testimonia come la seconda venuta di Gesù fosse immaginata dai primissimi cristiani come un evento imminente. La vita nel mondo può avere come epilogo solo l’incontro con il ritorno del Signore. Ecco perché l’immaginario dello stare svegli e sobri (non ubriachi) nella prospettiva dell’attesa è utilizzato per esprimere uno stile di vita che riguarda tutta la comunità più che i singoli. Rimanere sobri diventa così facilmente il simbolo dell’attesa escatologica del credente. Allo stesso modo, anche la prima lettera di Pietro utilizza lo stesso termine in connessione con una “fine” vicina.
1 Pietro 1, 13; 4, 7
1,13 Cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà.
4,7 La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera.
Tuttavia, con il passare dei decenni e verificata la necessità di una dilazione nei tempi dell’attesa del ritorno di Gesù dal cielo, rimane la stessa indicazione di stile per i credenti. La sobrietà e la temperanza non vengono più presentate come virtù eminentemente escatologiche, adatte a chi vive tempi che sono “ultimi”, ma diventano proposte etiche connesse con la quotidianità “nel mondo” del credente. Le lettere più tarde del Nuovo Testamento sembrano infatti omologarsi alla visione stoica della temperanza come dominio delle passioni e degli eccessi. Si può citare come esempio 1 Timoteo 3, 2-3 e 11: Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro […] Allo stesso modo le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutto.
La sobrietà come valore relazionale
Dalle brevi note sopra presentate risulta evidente come il tema della sobrietà, seppur presente, non è certo centrale nell’elaborazione di uno stile etico, a differenza delle filosofie dominanti contemporanee del mondo ellenistico (per approfondire questo aspetto cfr Menghi M., L’etica della temperanza. Fortuna di un ideale nella società antica, Vita e Pensiero, Milano 2009). Il dominio sulle proprie passioni o l’enfasi sulla necessità di una liberazione dalla propria corporeità intesa negativamente non è mai tema centrale nella Bibbia (anche se lo diventerà in epoche successive al dettato biblico). Non vi si elogia mai, infatti, una temperanza di sapore stoico o “ascetico” in vista di una “perfezione” dell’uomo. Sembra piuttosto che l’invito alla sobrietà nell’uso dei beni abbia sempre una connotazione relazionale. Non è per essere più “perfetti” che si è invitati a un uso consapevole dei propri beni, ma per essere più “caritatevoli”, più attenti agli altri. Un esempio illuminante è una parabola del Vangelo di Luca, nella quale si assiste alla grande ricchezza che un uomo deve gestire (Luca 12, 16-21).
Luca 12, 16-21
16 Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17 Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18 Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19 Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20 Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21 Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
La campagna aveva dato un raccolto abbondante… Certamente la ricchezza di questo uomo è “onesta”, frutto del suo lavoro agricolo e della benedizione della terra e del clima. La risposta che egli dà a questa sovrabbondanza sembra perciò del tutto proporzionata. Da una parte l’oculato “deposito” per un risparmio che capitalizzi tanta fatica (demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni), dall’altra il poter finalmente godere l’onesta ricchezza soddisfacendo i propri desideri (dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!). Un tale atteggiamento è descritto con i parametri lavorativi ed economici di due millenni fa. Eppure è quanto mai attuale nella considerazione individualistica dei beni anche della società consumistica. Una volta fatta salva l’onestà delle modalità di acquisizione dei propri beni, deve essere lasciato assolutamente libero il godimento individualistico della ricchezza. «Passato il tempo in cui prioritaria era la necessità di soddisfare le esigenze primarie della gente mediante l’offerta di beni fondamentali per la vita, il sistema economico doveva, inevitabilmente, imboccare la strada della produzione di beni di secondaria importanza o (anche) del tutto aleatori e creare le condizioni di un loro permanente e rapidissimo ricambio. Di qui la necessità di sollecitare nell’uomo bisogni sempre nuovi. Ha origine così una vera svolta antropologica, che trova espressione nella figura dell’uomo consumatore, di un soggetto cioè in cui la dilatazione indefinita dei bisogni genera una voracità di fondo nei confronti dei beni» (Piana G., «La sobrietà, condizione per l’autenticità dei rapporti sociali», in Servitium, 162 [2005] 65).
La risposta “divina” della parabola a questo comportamento è invece molto critica: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Il fatto che i beni siano di qualcun altro risulta centrale nella temperanza che viene veicolata come valore. Il Vangelo è sempre molto esigente quando si tratta di condividere, di guardare all’altro/a in ordine al discernimento sull’uso dei (propri) beni. La priorità è cioè data alle relazioni interpersonali e sociali, piuttosto che a un’etica della perfezione individuale come norma dei comportamenti. “Peccato” sembra essere la mancanza di amore, piuttosto che la non capacità dell’autogoverno, anche se sappiamo bene tutti come, per amare veramente, occorra un’alta capacità ascetica rispetto al proprio godimento individualistico. Citando ancora Giannino Piana: «La sobrietà ha soprattutto a che fare con il corretto sviluppo dei rapporti interumani. Essa coincide con un uso moderato dei beni in vista della loro compartecipazione e condivisione. La sobrietà comporta l’abbandono di un atteggiamento (e di un comportamento) ispirato all’appropriazione esclusiva e totalizzante delle cose; implica, in altre parole, la consapevolezza di non essere proprietari ma solo amministratori di beni, il cui fine è la soddisfazione delle esigenze di ciascuno e di tutti nella prospettiva della ricerca di una sempre più ampia solidarietà» (ivi, 67). I recenti inviti alla sobrietà necessaria in questo momento di crisi trovano nuove motivazioni alla luce di un tale orizzonte. Certamente l’invito a presunte ascesi nazionali come sorta di virtù imposte da altri in ordine al superamento dei disordini economici ingenera malcontento e rivolta. Diverso potrebbe essere uno stile di temperanza capace di coinvolgerci come corpi sociali (all’interno delle singole nazioni) e come nazioni (all’interno dell’unica Europa) di fronte a uno stile di gestione economica e finanziaria non più sostenibile nei suoi eccessi di anni passati. Il tema della sobrietà rimanda alla necessità di saper declinare il proprio uso delle cose, il proprio consumo, come strumento per far crescere le relazioni, e questo tempo di crisi ci invita a chiederci che cosa è veramente importante (cioè come custodire e promuovere socialità, coesione, relazioni, sia in ogni Paese sia fra Paesi) e come finalizzare a questo scopo le nostre pratiche di consumo dei beni.