È proprio un gran bell’accordo. Anche se non coinvolge ancora tutti i (quasi) 4 milioni di lavoratori metalmeccanici in Germania, trattandosi di un progetto pilota.
Mi riferisco all'intesa firmata il 6 febbraio a Stoccarda tra il sindacato dei metalmeccanici IG-Metall e la federazione degli industriali Südwestmetall, coinvolgendo circa 900mila lavoratori del land Baden-Württemberg. Novità principali, il diritto per ogni lavoratore di chiedere una riduzione dell’orario di lavoro settimanale da 35 ore fino a 28, per un periodo da 6 a 24 mesi (replicabile in maniera non continuativa più volte nel corso della propria carriera) per esigenze personali o famigliari, come fare volontariato, o prendersi cura dei figli piccoli o degli anziani non più autosufficienti. Inoltre i dipendenti potranno usufruire di otto giorni di permesso aggiuntivi. D’altra parte le imprese potranno estendere la settimana lavorativa da 35 a 40 ore, per particolari esigenze di produzione. Il tutto è accompagnato da un aumento dei salari del 4% su base annua (il sindacato aveva chiesto il 6%).
E dalle nostre parti come siamo messi? Premesso che la congiuntura economica tedesca è particolarmente favorevole, con una disoccupazione al 5,4% (da noi siamo quasi all’11%), ci sembra evidente che il contesto culturale lavorativo italiano abbia bisogno di un salto di qualità, affinché il benessere della persona, il suo equilibrio tra la gestione dei tempi personali, famigliari e lavorativi siano sempre meglio integrati.
Certo, noi abbiamo lo smart working, il lavoro agile introdotto dalla legge 82/2017, ma che ancora stenta a decollare. Gli ultimi dati dell’
Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ci dicono che, nel 2017, su un campione di 67 grandi imprese, il 36% aveva iniziative strutturate di smart working (l’anno prima erano il 30%). Le cose non vanno meglio nelle piccole e medie imprese, dove tra un campione di 567, i casi di iniziative - strutturate e non - sono rispettivamente il 7 e il 15%. Come se non bastasse, il 40% si dichiara disinteressato al tema e c'è un 7% del campione che ignora del tutto il significato del termine smart working (sigh).
Ecco perché non ci resta che guardare all’accordo tedesco con un bel po’ di invidia, sperando che prima o poi anche da noi la flessibilità, il lavoro agile, lo smart working possano divenire un patrimonio comune dei datori di lavoro, dei lavoratori (non solo mamme) e dell’intera società.